Il 15 Aprile 1986 se ne andava Jean Genet. Non per uno dei suoi viaggi ai margini dei mondi tribolati, no, se ne è andato in cielo, da dove cadde settantacinque anni prima, a Parigi.
Stranamente è sempre a Parigi, al Jack’s, un albergo ad una stella, che finisce la sua storia terrena. Una storia come nessuna, una storia di uno scrittore che non avrebbe voluto scriverla, perchè, effettivamente, che senso ha scrivere la storia di uno che ha vissuto mille vite? Ovviamente abbiamo “Diario di un ladro”, uscito nel 1949, ma è un’autobiografia romanzata parziale, un frammento di un uomo che sempre si trovò nei luoghi dove si sarebbe fatta la Storia.

Un Paese che non troverà mai la pace, perchè nessuno vuole che si trovi la Pace. Son passati più di 40 anni dai massacri di Sabra e Chatila e oggi, si riavvolge il nastro come in un perentorio e metronimico ripetersi della Storia.
Non abbiamo spazio né tempo per approfondire il vissuto di Genet, ma si può dire che fu: ladro, omosessuale, carcerato, reporter, scrittore, vagabondo, poeta, martire, trovatello, regista, drammaturgo, collaborazionista, degenerato, provocatore, anticonformista, traditore, santo, circense, anacoreta, pazzo, anticolonialista, irregolare e ultimo degli ultimi.
La sua vita va studiata più e oltre i suoi scritti e le sue opere, le sue poesie, i suoi racconti; la street life di Genet è l’insegnamento più alto che abbia potuto lasciarci.
Fu il protagonista del film della sua vita, sceneggiata e diretta in prima persona, mentre la viveva. Scrisse i suoi romanzi, presumibilmente tutti e cinque, in carcere in un tempo breve e assolutamente solitario, Sartre nel suo “Santo Genet, commediante e martire” ne delinea i contorni con un’analisi profonda quasi spirituale, ma poi una volta libero continuò a cacciarsi in guai altrui, dei quali avrebbe sostenuto il pesante karma. Una volta fu lo stesso Sartre insieme a Cocteau a scagionarlo da un’accusa di furto, rimasti anch’essi imbrigliati dalla rete ammaliante dei suoi primi scritti.
Primo occidentale a mettere piede a Chatila, nei campi profughi palestinesi di Beirut nel settembre del 1982. E’ a lui che Dio concede di raccontare al mondo cosa avvenne lì in quell’inferno sulla terra.
“L’amore e la morte. Questi due termini si associano presto quando uno di essi viene scritto. Sono dovuto andare a Chatila per percepire l’oscenità dell’amore e l’oscenità della morte”.
“Un bimbo morto, a volte, può bloccare le strade, che sono così strette, quasi sottili e i morti sono così tanti. Il loro odore è indubbiamente familiare ai vecchi: non mi infastidiva. Ma quante mosche! Se sollevavo il fazzoletto o il giornale arabo posato su una testa, le disturbavo. Inferocite dal mio gesto, arrivavano a sciami sul dorso della mia mano, cercando nutrimento…”
“In mezzo a tutte le vittime torturate, la mia mente non può disfarsi di questa visione invisibile: come era il carnefice? Chi era? Lo vedo e non lo vedo. Mi acceca gli occhi, e non avrà mai altra forma che quella disegnata da pose, posture, gesti grotteschi dei cadaveri divorati, sotto il sole, da schiere di mosche…”
Cosa dobbiamo aggiungere dopo questi stralci di “Quattro ore a Chatila”? Nulla solo pensare che quest’uomo comprese l’inutilità del tempo o, meglio, l’inutilità del pensare che il tempo possa cancellare i peccati degli uomini. No, nessuna misura, nessun eone cancellerà dalle cronache dell’Akasha ciò che Genet testimoniò non soltanto nei campi palestinesi, ma in tutti i suoi percorsi sbagliati: nei vicoli ciechi dei ghetti americani insieme al Black Panther Party, nei bordelli di mezzo mondo o nel ’68 a Parigi, discutendone con Sartre, con Cocteau con Matisse e Giacometti. Il coraggio di allinearsi senza motivo apparente con il conflitto e non con la pace, con Caino e i cattivi, con i totem del male identificati dall’occidente. Rinunciò a tutto, anche a vedere le sue pièce teatrali, non si presentò nemmeno alla Comédie Française per la rappresentazione de “Il balcone”, il massimo per il teatro occidentale, rimase fuori chissà dove, con la sua valigetta dove conservava tutti i suoi beni materiali. Fassbinder nel 1982 lo premiò con il suo ultimo capolavoro cinematografico: “Querelle de Brest”, tratto dall’unico romanzo di Genet, senza tracce autobiografiche, ma ambientato in un contesto portuale a lui molto caro. Non fu il vagabondo che doveva essere, lì dove ti aspettavi che fosse, al contrario potevi scoprirlo con qualche ricchissimo omosessuale da derubare, prostituendosi per poi dividere con i reietti dei bassifondi.
I suoi scritti sono esenti da pecche, sono perfetti e stupiscono, sapendo che provengono dalla mano di un uomo che abbandonò gli studi prestissimo e si scagliò contro la sua patria colonialista e lo sfruttamento dei paesi del nord Africa. Volle essere seppellito in Marocco per confermare ancora una volta, la sua vicinanza alle terre sfruttate dall’opulento occidente.
In questo breve scritto c’è il perpetuarsi della storia dell’uomo in questo mondo grazie per non farci dimenticare