È un’ironia tragica quella che permea la vita di Iris, la protagonista di Vuoto, ultimo romanzo della talentuosa scrittrice Ilaria Palomba, edito per i tipi di Les Flâneurs Edizioni. Ilaria è poetessa, filosofa e scrittrice, numerose sue opere hanno destato interesse nel mondo della letteratura indipendente e non fa eccezione questo suo ultimo lavoro. In attesa di scoprire quale sarà il prossimo romanzo – di cui ci fornisce alcuni dettagli in questa intervista – ripercorriamo la storia di Vuoto, un libro in cui l’amore si fa tossico, la morte e l’idea del suicidio attraversano i pensieri di Iris e la scrittura si fa portavoce di quel decadimento di valori ed emozioni che ha colpito la società contemporanea. Un romanzo onirico, dove l’immaginario shakespeariano del sogno emerge prepotente dalle pagine e la malattia, soprattutto mentale, è il portale che si affaccia su un mondo lontano, un mondo che ha occhi per vedere lo squallore del presente e cuore per sentire il frantumarsi di tutte le più belle illusioni.
Ma parliamone con l’autrice, Ilaria Palomba.
Che idea ha Iris dell’ambizione letteraria? Perché, nel romanzo, la definisci “distruttiva”?
I riconoscimenti sono importanti, soprattutto se hai passato la vita al margine, serve potersi dire: adesso so chi sono, sono altro da ciò che voi credevate, sono una scrittrice. Si è scrittori anche senza vincere premi o vendere migliaia di copie, ma è così difficile conoscere il proprio valore senza passare per un’ufficializzazione. Però, bisogna sapere che la letteratura è da un’altra parte, non è un prodotto di consumo, o lo è entro certi limiti, non si va molto oltre se si vive schiacciati sul presente. L’ambizione è autodistruttiva perché la quantità di persone che scrivono è eccessiva, e in questa dispersione del talento nel labirinto di specchi in cui siamo invischiati rischia – l’ambizione – di essere un investimento a perdere, di fallimenti e frustrazioni. Altra cosa è scegliere una ferrea disciplina, scegliere i propri modelli tra gli inarrivabili, sarà frustrazione comunque, ma la posta in gioco non è il qui e ora, si diventa i soli giudici di sé stessi. Per me la letteratura è vertigine, probabilmente anche questo è pericoloso, ma trovo sia un pericolo più nobile. Per Iris lo diventerà, nel corso del libro compie questo passaggio dal desiderio di essere riconosciuta e amata al momento in cui fa un viaggio sciamanico per incontrare sé stessa. Non sarà un compimento definitivo, ma un’esistenza che va di volta in volta risvegliata.
Nel romanzo tutti i protagonisti principali sono scrittori: cosa rappresenta per Iris e per te la scrittura?
La scrittura è l’unico modo in cui sono riuscita a convivere con i miei demoni. Per Iris è la stessa cosa, la sua storia tragica: la violenza subita a dodici anni, una famiglia onnipresente ma inerme, le droghe, le relazioni dolorose con uomini presi solo da sé stessi, il lutto. Sarebbe la storia di un’assassina, nel mio precedente romanzo, Brama (Giulio Perrone), la protagonista lo era. Invece Iris non lo è, la sua rivolta è attraverso la parola. Gli altri figurano come rivali, perfino il marito, Federico – uno scrittore molto più bravo di lei –, diventa nemesi. Così sarà finché non arriverà nella casa al confine tra i mondi, dove otterrà una tregua dall’esterno, dall’ambizione, dalla competizione. Credo Iris sia in parte un personaggio da sottosuolo dostoesvkijano, in parte un io frammentato nella desolazione abbandonica di Psicosi delle 4:48 di Sarah Kane, in parte un’Alejandra Pizarnik ancora inconsapevole.

Quanto sono importanti per Iris i sogni, le profezie, i tarocchi?
In effetti, Vuoto è un romanzo onirico. Un sogno premonitore l’avvisa della morte del suo migliore amico, e anche nei tarocchi che leggeva al suo compleanno aveva intravisto questa possibilità, ma non voleva credere alla premonizione. La morte di Giulio sarà per Iris l’inizio della crisi, potremmo dire, con De Martino, una crisi della presenza. Una parte di lei è arcaica, primitiva, abita un mondo magico, fatto di presagi, demoni, manifestazioni di altre dimensioni, irruzioni del surreale e dell’assurdo nella realtà. La sua realtà vacilla costantemente.
Parlaci dell’aspetto onirico del romanzo.
Non credo possa darsi romanzo senza immaginario, senza un pensiero e un sogno – o incubo – che lo attraversi. Non sono un’autrice realista, anche se sembrerebbe di sì, la trama è sempre una vita, ma non mi è mai bastata la narrazione palese, in fin dei conti tutto è onirico, la stessa esistenza.
Come vede Iris i professionisti della salute mentale?
Con l’aiuto degli studi filosofici si può superare l’illusione di un’eterna terapia, è sintomatico che in questo libro, seguendo il precedente e presagendo il successivo della stessa linea (quello che sto scrivendo adesso), ci sia uno scontro con diversi terapeuti. Iris, come Bianca, come Ilaria, non può sottostare alla diagnosi di borderline, isterica, depressa, bipolare, la sua sofferenza ha origini antiche, ed è forse lo strumento che ha per comprendere le cose. La crisi è l’irruzione di un dolore non addomesticabile. Ha senso stare bene in un mondo malsano? Le mie protagoniste sono delle antieroine, scomode, insubordinate. Credo si eserciti ancora una certa violenza attraverso la psichiatria, o meglio, la si eserciti come mai prima, soprattutto quando la terapia non è al servizio della persona in cura ma della società in cui vive. Credo l’analista debba poter diventare il tramite di una trasformazione, che possa essere altro dal rientrare nelle regole del gioco, perciò credo nella schizoanalisi dell’Antiedipo di Deleuze e Guattari, non nelle terapie per rientrare da una crisi, crisi che forse è l’inizio di una presa di coscienza.

L’amore tra Federico e Iris sfocia in una relazione tossica: cosa la nutre e cosa invece la distrugge?
Certo, è un passo nel delirio. Uno strano matrimonio, fatto di promesse mancate, idealizzazioni che crollano. Tra Iris e Federico l’amore è violento, violento il sesso, l’introspezione che distrugge. Non è così semplice trovare la propria nemesi. Loro lo sono, l’uno dell’altra, e la vicinanza è tale da risultare insopportabile. Il desiderio si estingue a contatto con la realtà. È la simmetria che dilania la relazione, sono speculari, ciascuno di loro ha un bisogno d’amore così grande e disperato che non potrà mai essere raccolto, ecco il vuoto incolmabile, ma il deserto che dovranno attraversare sarà forse l’inizio di un faticoso incontro con sé stessi.
Nel libro si dice che il dormire si avvicina al morire. È quindi questa per Iris la salvezza dalla depressione?
Forse sprofonda in questa formula shakespeareiana per avvelenare il veleno, per salvarsi dall’insonnia, dall’ansia e dalla realtà. Iris odia la realtà. Tutto ciò che la sospende: l’orgasmo, gli allucinogeni, il sogno, diventa una possibilità di separarsi da una sofferenza a tratti persecutoria. Lei è così. Oggi so che la via è un’altra: è nella fatica fisica che si può superare l’ossessione. L’agire salva da un pensiero pervasivo. Nessuno viene a liberarci, è una pretesa illusoria. Occorre una dose di fatica, che al momento mi manca perché manca la libertà di muovermi nello spazio, sollevare pesi, camminare a lungo, ma sicuramente quando nuoto la prospettiva cambia. L’acqua mi fa sentire libera, la stanchezza fisica mi aiuta a vivere meglio una condizione di salute difficile. Iris aveva intuito questo durante una passeggiata sfiancante tra due spiagge salentine.
La dicotomia della scelta tra il fare arte e amare.
Iris si trova a dover fare questa scelta perché, a causa della competizione tra lei e Federico, nonostante abbiano provato a scrivere un libro a quattro mani, lui le dirà in modo perentorio di scegliere se scrivere o fare la moglie. Si tratta di un caso estremo, estremissimo, anche perché, come si diceva, il loro amore è un gioco di specchi, un gioco al massacro, se vogliamo. Però non ho dubbi che questa scelta si presenti di volta in volta nella vita di ogni artista, perché l’arte pretende che il tempo le sia donato nella più radicale totalità, e l’amore non può essere volatile: se non s’intensificano i rapporti, se non ci sono progetti di vita condivisi, l’amore resta una bella illusione, e finisce per estinguersi amaramente. Per ogni artista che voglia abitare la verticalità della vocazione si tratta di una dicotomia aporetica.

Quanto è importante per Iris l’esperienza spirituale del buddismo?
Il buddismo del Sutra del Loto è un altro modo di abitare il vuoto, la ricerca orientale del silenzio della mente. Sarà per Iris solo un passaggio. Una fase importante in cui proverà a immergersi nella vocazione opposta – l’esaltazione della vita – alla sua, che è thanatos. Ma durerà il tempo necessario a comprendere quale sia il modello di spiritualità più vicino a lei, quello di tipo estatico-sciamanico. Oggi direi che mi sento più vicina al cristianesimo che al buddismo, ma in una visione sincretica, panteista, in cui convergono magia, sciamanesimo e esperienza della croce. Forse in Iris tutto ciò è già embrionalmente presente, ma sarà nel libro sulla mia esperienza di lunga degenza che si manifesterà chiaramente questo legame tra sacrificio e rinascita.
Parliamo dell’idea del suicidio: miti, tabù, paure.
Il suicidio è la prima e l’ultima delle ossessioni, tanto da avermi rovinato molto concretamente la vita. Per Iris è un’ossessione legata alla mancata accettazione di sé stessa, proprio in relazione all’ambizione, al mancare sempre un ideale. Sì, esiste una mitologia del suicidio, i poeti impazziscono o si ammazzano; penso sempre all’amata Alejandra Pizarnik, a Paul Celan, Amelia Rosselli, Antonia Pozzi, Beppe Salvia. Poi, mi vengono in mente Friedrich Hölderlin, Antonin Artaud, Dino Campana, la quasi scelta della pazzia. Ma trovatemi un poeta felice, che sia però un poeta! La poesia porta nella vertigine, che è anche precipizio, ad amare rovine senza essere ricambiati. Perché forse al poeta non basta, non può bastare, una vita ordinaria, cerca nell’oltre, finché quell’oltre non gli si rovescia addosso. Il suicidio è un tabù, più del sesso. Non bisogna parlarne, significa mettersi in pericolo e mettere in pericolo la società. La vita e la morte vanno accettate come un destino. Eppure, sarò in contraddizione con il rigore religioso, credo che la vita non debba essere sempre accettata nell’indomabile dolore, che ciascuno debba poter scegliere se vivere o morire a seconda di quanta sofferenza comporti la sua condizione, a seconda del suo desiderio più profondo. Quando anni fa mi capitò di leggere Levar la mano su di sé di Jean Ámery, pensai di aver trovato la verità definitiva sul suicidio: io posso rifiutare il dono del corpo in quanto non mi appartiene mai una volta per tutte, posso non riconoscerlo nel mondo, posso non accettarlo, così come posso non accettare l’identità che sono per gli altri e, seppur non si possa mai realmente non comunicare – anche sparire comunica qualcosa –, posso voler comunicare che non sto alle regole del gioco per cui sono un determinato essere in cui non riconosco la mia verità. Certo, è spaventoso, non si conviene, sarebbe un pensiero spietato, anche perché – questo sulla mia pelle – può anche non riuscire, e rovinarci la vita senza estinguere alcun dolore.

Da cosa deriva il “vuoto” nelle vite dei protagonisti dal quale il libro prende il titolo?
Vuoto è il presente, le identità in cui s’incarna. Vuota è la vita piena di illusioni. Vuoto è ciò che resta nel franare. Vuoto è lo stato mentale da raggiungere – un vuoto mistico, differente dal vuoto di senso in cui si è immersi nel presente, nello stare in società, nell’ambire. Quando si riconosce e si accetta il vuoto ci si risveglia da uno stato di spersonalizzazione, liberi entro certi limiti dall’egemonia del momento. Che grande giorno sarà quello del silenzio!
Grazie a Ilaria Palomba.