[Inauguro con questo articolo, accanto alle interviste, una mia rubrica sul cinema che consisterà quasi prettamente in omaggi, elogi e approfondimenti critici]
La sposa cadavere (Corpse Bride), opera d’animazione di Tim Burton del 2005, potrebbe quasi essere definita “tardo-espressionista”. Tale premessa è ineccepibile, eppure gli esiti differiscono da quanto ci si aspetterebbe.

Le soluzioni visivo/linguistiche che Burton mutua dalle opere espressioniste sono effettivamente numerose, e la più citata risulta Il gabinetto del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari), 1920, di Robert Wiene. Attraverso un’analisi parallela delle due opere, ci accorgiamo però facilmente dell’uso originale che il regista americano fa di tali soluzioni.
Analogamente alla corrente pittorica, il cinema espressionista non ripropone il reale pedissequamente, nella sua scarna apparenza, ma lo rielabora fantasticamente, secondo lo sguardo interiore dell’artista, allo scopo di alterare e rinnovare la prospettiva su di esso e carpirne e rivelarne gli aspetti sotterranei, elusivi, profondi e segreti, veicolati da sogni, incubi, ossessioni e visioni.
Il gabinetto del dottor Caligari, “opera cinematografica espressionista per eccellenza” secondo il critico Georges Sadoul, si risolve perfettamente nel novero delle tematiche sinistre ed inquietanti del genere: nel 1830, nell’immaginaria città di Holstenwall, il giovane Cesare, vittima di sonnambulismo, si ritroverà in balia di un losco imbonitore da fiera, identificatosi con l’ipnotizzatore settecentesco Caligari, che riuscirà a irretirne e controllarne la mente attraverso influssi ipnotici, inducendolo a compiere efferati delitti. La trama del film sembra quasi profetizzare l’avvento nefasto dei dittatori novecenteschi, capaci di soggiogare e manipolare intere nazioni, e, in effetti, il Dr. Caligari fungerà da principale modello per il Dr. Mabuse di Fritz Lang, immagine lampante del nazismo.
Ispirate alle astrazioni del pittore Ernst Kirchner e alle superbe fantasmagorie di scrittori come E.T.A. Hoffmann e Achim von Arnim, le allucinate scenografie dell’architetto Hermann Warm e dei pittori Walter Reimann e Walter Röhrig conferiscono al film un’atmosfera straniante. Nel polisemico finale (forse suggerito dal sunnominato Fritz Lang), capace di diluire e mitigare, ed al contempo esacerbare dissimulandola nell’ambiguità, la critica all’autoritarismo prussiano voluta dagli sceneggiatori Carl Mayer e Hans Janowitz, si adombra la possibilità che l’intera vicenda altro non sia che l’allucinazione dell’ospite di un manicomio, sul modello dei deliri di individui quale James Tilly Matthews, ospite, nel 1797, dell’ospedale psichiatrico inglese di Bethlem, convinto di essere venuto a conoscenza del complotto ordito da oscuri criminali per controllare le menti dei potenti e manovrarne le azioni. Tale epilogo recide definitivamente il confine fra sogno e realtà, e corrobora l’atmosfera fantastica fino a far si che ogni pur evanescente parvenza di concretezza si sfilacci e dissolva nel possibilismo più ardito e nel dubbio più radicale.

Sembra, poi, che la torva e truce figura del giovane sonnambulo sia in buona parte ispirata al protagonista di un enigmatico caso che si sarebbe verificato nella Londra della seconda metà dell’Ottocento, ovvero Spring-heeled Jack (“Jack dai tacchi a molla“), misterioso essere deforme, dalle fattezze vagamente demoniache e dotato di artigli, capace di compiere (da qui l’epiteto) enormi balzi per inerpicarsi e destreggiarsi fra i tetti di Londra, allo scopo di aggredire e molestare vittime in particolare femminili, fonte di ispirazione anche per vari altri personaggi della narrativa fantastica, dal cinematografico Freddy Krueger ai fumettistici Batman e Daredevil. Il collegamento col giovane Cesare fa di quest’ultimo un essere che ha finito per perdere la propria stessa umanità, divenendo qualcosa di amorfo ed indefinito, inafferrabile, perfetta rappresentazione delle soverchianti possibilità del genere umano, nei loro aspetti anche più oscuri, foriere di regni capaci di trascendere la nostra esperienza e dimensione quotidiana.
Il protagonista de La Sposa Cadavere di Tim Burton e Mike Johnson, il giovane Victor, si ritrova inizialmente in balia, proprio come il Cesare di Caligari (a cui somiglia fisicamente), di forze incontrollabili e disarmanti, parallelismo sottolineato dal recupero di soluzioni estetico/linguistiche dell’Espressionismo, volte a ribadire la necessità di trascendere l’insipida realtà; ma, nonostante le premesse e le affinità concettuali, gli esiti saranno ben diversi.
Victor Van Dort, promesso sposo di Victoria Everglot, infila accidentalmente ed avventatamente al dito (creduto un ramo) della povera Emily, assassinata dall’infido lord Barkis Bittern, l’anello destinato alla propria futura consorte. Emily lo reclamerà inizialmente quale suo sposo, ma poi, intenerita, si sacrificherà per amore, rinunciando all’unione e permettendo il contatto e l’armonia fra il regno dei vivi e dei morti, proprio come la defunta del racconto d’ispirazione cederà alle accorate suppliche delle promessa sposa vivente, accettando lo scioglimento del vincolo in cambio della promessa di un perpetuo ricordo.

L’opera di Burton si ispira infatti ad un’antica tradizione ebraica alla base anche del racconto Il Dito, redatto nel XVI Secolo dal rabbino, mistico e letterato Isaac ben Solomon Luria di Safed, rivisitata secondo una variante folcloristica russo-ebraica del XIX Secolo. Vicende simili sono però presenti in moltissime tradizioni, e racconti quale La Vénus d’Ille, 1837, di Prosper Mérimée, ove al posto del cadavere dell’assassinata vi è un’antica (e funesta, a differenza della Afrodite/Galatea di Pigmalione) statua di Venere, o La Morte amoureuse, 1836, di Theophile Gautier, ove una vampiressa, Clarimonde, amata e temuta al contempo, si lega ad un mortale al di là della morte, discostano tematiche analoghe o affini dall’ambientazione ebraica ed europeo orientale, avvicinandole a quella gotico vittoriana scelta da Burton per il suo film. Tali racconti si rivelano inoltre vicini alle moltissime tradizioni da tutto il mondo intorno all’unione fra mortali ed esseri sovrannaturali (come quella francese riguardante il cavaliere Raymondin e la Fata Mélusine, fondatori, secondo tradizione, della dinastia dei Lusignan), pericolose e complesse proprio in quanto creano un destabilizzante ponte fra i due mondi.
Burton ci propone altresì un regno ultraterreno, separato dal nostro da un labile confine, che ricorda anch’esso da vicino quello di varie tradizioni, da quella celtica a quelle latino americane. La dimensione ultraterrena si presenta perciò prorompente ed incombente quanto quella rappresentata nelle opere espressioniste, ma con una differente declinazione.
Il variopinto ed esuberante mondo dei morti, contrapposto alla grigia, cupa ed oppressiva ambientazione vittoriana del film, sembra rifarsi ai regni dell’Oltretomba della tradizione celtica, residenze degli stessi dei, dimensioni trascendenti ove è possibile accedere ad una conoscenza superiore, nonché luoghi colmi di pace, armonia, salute, svaghi e musica incantata.
Allo stesso modo, nel regno burtoniano dei morti vengono sfatate ed abbandonate le limitate convenzioni e convinzioni dei viventi, destabilizzando e sovvertendo la nostra prospettiva sulla morte e sulla vita stesse, e conducendoci ad additare quale autentica morte una vita gretta, inane, anodina e priva di consapevolezza, caratterizzata da una meschina assenza di rischio ed ardimento volti a scrutare oltre l’orizzonte.

L’invito del cinema espressionista, colto da Burton attraverso le sue raffinate citazioni tematiche, linguistiche e stilistiche, a superare gli angusti e scialbi limiti del realismo verso una diversa prospettiva, conduce qui dunque alla scoperta di una dimensione fiabesca tutt’altro che tetra.
Il regno ultraterreno di Burton si rivela accostabile all’Altierjinga (“Tempo del Sogno”) della tradizione degli aborigeni australiani, sorta di peculiare connubio tra un’ancestrale e primordiale Età dell’Oro e una dimensione mistica senza tempo né luogo.
Proprio come la vegetazione sembra disfarsi, quando Victor attraversa il bosco, in un gioco di luci ed ombre o linee sghembe che si ergono incerte, alberi o tentacoli o mani protese verso la porta di un altro mondo (rimando a Il Gabinetto del Dr Caligari), nell’Altierjnga una roccia può essere nuvola o un corso d’acqua serpente, risolti in un’identità insondabile pronta a dissipare ogni anchilosata certezza o convinzione su quanto abbiamo dentro e fuori di noi. Proprio in tal direzione Burton recupera il linguaggio espressionista, ribaltandone il segno, e caratterizza il proprio mondo ultraterreno, pronto a pervadere il nostro con la forza dirompente, iperbolica e stravolgente di un immaginario grazie al quale, secondo Antoine de Saint-Exupéry, “Un ammasso di roccia cessa di essere un mucchio di roccia nel momento in cui un solo uomo la contempla immaginandola, al suo interno, come una cattedrale.”
Un immaginario che risulta cifra, come scriveva Sartre, della nostra stessa libertà.