(Intervista in due parti, parte seconda)
[Link per accedere alla parte prima: https://qcultura.com/2023/10/08/il-trucco-la-maschera-e-il-volto-colloquio-con-giulia-giorgi-parte-prima/ ]
“L’arte sta in fare che tutto sia finto e paia vero”, asseriva Gian Lorenzo Bernini in relazione agli aneliti dell’arte Barocca seicentesca. Discendenti ed eredi degli antichi maghi e sacerdoti con i loro abbacinanti artifici, e figli del teatro, effettisti e truccatori, artigiani del sogno, fin dagli albori del cinema hanno saputo plasmare la realtà a immagine della nostra fantasia, creando maschere e universi.
Disquisiamo sulla poetica del trucco e dell’effetto speciale con la talentuosa make-up artist ed effettista Giulia Giorgi

La visionaria ed estrosa SFX make-up artist Giulia Giorgi ci guida nel vertiginoso mondo degli effetti speciali di trucco
Personalità artistica estremamente eclettica e versatile, Giulia ha saputo coniugare esuberante fantasia, destrezza manuale e alacre spirito imprenditoriale, dedicandosi in particolare alle produzioni cinematografiche indipendenti.
Sul versante creativo spazia con disinvoltura dal make-up SFX fino al trucco tradizionale e all’hair styling.
E’ stata SFX designer per opere come Deadblood (2012, di Pietro Tamaro), The Prophan Exhibit (2013, episodio di Ruggero Deodato), Ebola (2015, di Christian Marazziti), Nove Lune e Mezza (2017, di Michela Andreozzi), Go Home – a casa loro (2018, di Luna Gualano), Il Ragazzo più Felice del Mondo (2018, di Gipi) e Cattivo Sangue (2021, di Simone Hebara). Durante il 2023 ha collaborato come make-up FX on set per Leonardo Cruciano alla realizzazione di The Immaculate di Michael Mohan.
Attiva anche in ambito teatrale e televisivo, a livello internazionale, ha preso parte ad eterogenee produzioni: è stata Makeup and Hair designer per la serie di documentari Sky Arte Mystery of the Lost Paintings (2018, di Giovanni Troilo), e Makeup and Wig designer per l’edizione di Cats – The Musical versione steampunk (2017, diretta da Stefano Mapelli), realizzata da Operà Populaire. Tra le varie altre cose ha poi collaborato, in veste di Special Fx Technitian, affiancando Maurizio Corridori, alla realizzazione dell’episodio Amor Vincit Omnia (2018) della serie Netflix Sense8 (2015/2018, ideata da Lana e Lilly Wachowski e J. Michael Straczynski), e in veste di hair stylist, per Claudia Catini, alla prima stagione della serie Domina (2021, ideata per Sky da Simon Burke) e per Elisabetta De Leonardis al girato italiano della terza stagione (2022) di Jack Ryan (2018/2023, ideata da Carlton Cuse e Graham Roland sulla base del personaggio di Tom Clancy).
E’ co-fondatrice e presidente della Baburka Production ( http://www.baburkaproduction.com ), realtà che spazia dall’effettistica speciale allo show business alla produzione, la cui divisione Baburka factory FX (di cui è direttrice artistica), dedicata agli effetti e alle creazioni speciali e ai servizi creativi, è in grado di offrire a produzioni nazionali ed internazionali ciò che attiene agli effetti speciali di trucco e non, dal prop making all’iperrealismo, dallo special makeup effects all’animatronica, integrando il volto squisitamente materico e artigianale con le più innovative tecnologie. E’ altresì co-fondatrice dell’Associazione di Categoria EffectUs ( http://www.effectusevent.com ), nonché ideatrice del network operativo Il cartello degli Indipendenti, nato nel 2017.
Giulia è anche rinomata ballerina di Break Dance, con il nome d’arte di Chimp, molto attiva nella comunità dell’Hip Hop, tematica sulla quale ha realizzato i due documentari 1 world under a groove (2013, con Matteo De Angelis) e Break the Siege (2015), oltre a dirigere artisticamente l’hiphopcinefest.org. Non secondo alla verve creativa è poi il suo fervido impregno politico e sociale di attivista, che l’ha portata a conseguire una laurea in Relazioni tra i popoli e cooperazione allo sviluppo con specializzazione in studi orientali.
Quali tra i suoi lavori hanno per lei un significato particolare, precipuo, che meglio la esprime e la rappresenta sia in quanto valente artigiana che in quanto artista?
Tra i lavori che mi piace menzionare, sicuramente uno dei miei primi progetti, Dead Blood, un cortometraggio vampiri contro zombie, il mio primo design di creature, e, come dicevo prima, Go Home, a casa loro. Dead Blood mi è molto caro perché si tratta di un’opera sicuramente acerba, fatta da un gruppo di giovanissimi, ma che raccoglie tutta quella spensierata e un po’ folle volontà di creazione che dovremmo portarci dentro sempre, anche proseguendo nella nostra carriera, ma che a volte purtroppo un po’ tutti noi perdiamo; era un cortometraggio che aveva già generato una sceneggiatura per un possibile lungo in lingua inglese, che avrebbe potenzialmente generato una serie di libri, una serie televisiva, un gioco da tavolo e, perché no, un videogioco… per quanto ora siamo tutti più smaliziati, è sempre bello guardare indietro e ricordare l’entusiasmo incosciente di quei primi anni. Altro progetto che rimarrà con me per sempre è Go Home, un horror sociale, ambientato in un centro di accoglienza che durante una manifestazione fascista subisce un attacco zombie. Un progetto in cui tutto l’underground romano militante si è unito, dalla copertina disegnata da Zerocalcare fino alla colonna sonora. Qui abbiamo rappresentato la zombificazione attraverso un’estremizzazione delle malattie della pelle che vengono spesso contratte dai migranti quando vengono rinchiusi in Libia in attesa di attraversare il mare. Lo studio di questa particolare zombificazione è stato fatto assieme alla regista proprio con lo scopo di aggiungere un messaggio ad ogni livello dell’opera, anche nell’effetto speciale, ed è questo il tipo di co-creazione che amo in questo lavoro. Questo è un progetto che mi rappresenta molto sia politicamente che artisticamente. Amo che i miei Makeup e il mio lavoro portino un messaggio con sé.

E’ molto diffuso il luogo comune che vuole il trucco depauperare la recitazione andando ad ostacolare la naturalezza e la disinvoltura dell’interprete. Come è però possibile che la maschera corrobori, al contrario, la performance, spronando l’interprete ad escogitare nuove strategie espressive, così vi sono artisti, quale il mimo Doug Jones, talmente a loro agio col trucco da farne una loro cifra. D’altronde un trucco iconico come quello de La moglie di Frankenstein ha contribuito in modo prorompente e significativo, nel 1935, ad esaltare il talento di Elsa Lanchester, aiutandola a fare della sua creatura un mito tramite solo pochi minuti di apparizione in scena. E’ capitato che il suo lavoro fosse un incentivo alle prestazioni di un interprete?
Il Makeup è parte della performance, la aiuta e la accompagna permettendo all’attore o attrice di potersi immedesimare non solo mentalmente ma anche fisicamente nel personaggio. Credo che nonostante non abbia mai creato dei Makeup così iconici nella mia vita, ogni trasformazione seppur minimale aiuti gli interpreti nel loro lavoro. Come dicevo prima, la bellezza del nostro lavoro sta nel fatto di essere un lavoro collettivo, che ha la direzione del regista ovviamente, ma che per una buona riuscita si basa soprattutto sulla cooperazione dei capo reparto. Gli attori devono far parte di questa cooperazione, ne sono dopo tutto uno dei fulcri, per cui saper ascoltare le necessità di un attore, senza che detti ovviamente la sua totale volontà, è un passaggio necessario per aiutarlo a performare al meglio e, perché no, a vestire un volto nuovo che lo renda un giorno famoso in quel determinato ruolo.

I mille volti di un Mestiere e di un’Arte
E’ risaputo come una seduta di trucco, sia per chi trucca che per chi è truccato, possa risultare estenuante, addirittura prostrante: il processo che trasformava Boris Karloff nel Mostro di Frankenstein richiedeva tre ore e mezza di lavoro, ma si sa che ancora oggi sedute molto impegnative possono durare anche considerevolmente di più. Attualmente tecniche e materiali mitigano e scongiurano molto del disagio e del rischio che c’era in passato, ma quali sono le strategie per rendere meno gravoso il processo?
I materiali si evolvono, ma comunque una trasformazione integrale, che sia in una creatura o un invecchiamento, richiede molte ore; ci sono Make-up da mezz’ora come da 4 o 7. Quando si sceglie questa strada, questo genere di trasformazione, la cosa va considerata attentamente nell’economia del film. Nel momento in cui la produzione ed il regista decidono di intraprendere un progetto che considera tante ore di trucco, devono essere ben consci del peso che questo avrà nel progetto sia a livello di tempi che economico che umano. A volte siamo noi a spiegare quanto non esista una cosa “semplice” o “facile”. Altrimenti non ci chiameremmo effetti speciali!
Quindi per la buona riuscita di un film, a volte contro i nostri stessi interessi, consigliamo di focalizzare gli sforzi solo su alcuni effetti, investendoci di più per un miglior risultato finale complessivo. Le trasformazioni non sono per tutti gli interpreti, tanto che esistono degli attori che si sono specializzati nell’interpretazione di creature grazie alla loro fisicità ed abilità mimiche, come ricordavi prima. La volontà di mettere del nostro non deve mai cozzare con l’economia complessiva del film, e, di nuovo, la parola d’ordine è collaborazione, se un interprete, una situazione produttiva, delle dinamiche interne o qualsiasi altra buona ragione non permette l’utilizzo della nostra arte nelle migliori condizioni possibili, è meglio suggerire qualcosa di più semplice, di meno invasivo e che alla fine contribuisca davvero a produrre un film migliore. Se invece ci sono tutte le condizioni necessarie, allora, oltre che ai fantastici prodotti di oggi, il segreto per rendere all’attore meno gravoso il lato che ci compete è senza dubbio la cortesia e la gentilezza, essere “sotto i ferri” per 4-5 ore può essere davvero stressante e circondare l’interprete con buona energia è senza dubbio il segreto per un’esperienza il meno traumatica possibile.

E’ noto come Steven Spielberg, fresco del repentino e immane successo del suo storico Duel, del 1971, considerasse Lo Squalo, idealmente, il proprio King Kong, film che è però un opulento, rutilante trionfo di effetti speciali. L’animatrone dell’efferato leviatano, invece, si guastava spesso, cosa che spinse Spielberg ad optare per il “metodo Howard Hawks”: quando quest’ultimo, infatti, girò il leggendario The Thing From Another World, coadiuvando Christian Nyby nel 1951, si trovò ad avere a che fare con una maschera che non rendeva giustizia al terrifico ed imponente alieno vegetale, facendolo apparire un, secondo il gergo, “Orso”. Non solo per ovviare al fatto che un’eccessiva presenza della creatura in scena avrebbe esacerbato il suo aspetto un po’ grossolano, smorzando ogni tensione, ma anche per preservare l’atmosfera trasognata, conveniva, secondo Hawks, che l’essere fosse elusivo, quasi evanescente, comparendo in scena poco e spesso solo adombrato salvo nel pirotecnico finale.
Quanto è importante per un effettista, a seconda delle circostanze, dosare ed alternare in modo avveduto e ponderato fra il nascondere e il mostrare? Si è mai trovata a consigliare registi e produttori a riguardo?
Sono diverse le situazioni in cui ci si può trovare, da quella in cui il regista ha una chiara idea di cosa vorrebbe vedere e noi dobbiamo dire cosa si può fare nel mondo reale, fino a quella in cui le idee sono più vaghe e ci troviamo a consigliare sulle scelte artistiche.
Ci sono diversi tipi di effetti, quelli dinamici come i blood rig e gli effetti di sangue e quelli iperrealisti di trasformazione. I primi sono effetti che funzionano poiché sono brevi ed intensi, la scelta dell’inquadratura e dell’azione fanno la differenza. Lo spettatore sa che quello che sta guardando è finzione e tenderà sempre a cercare l’errore, quindi l’effetto flash è chiave perché non permette di soffermarsi troppo sul dettaglio.
Invece i secondi, come gli invecchiamenti o profonde trasformazioni anatomiche, saranno sempre in scena; le tecniche odierne di realismo sono molto sviluppate e permettono una lunga resa in camera per creature e trasformazioni, ma l’alta risoluzione non perdona e si vede ogni poro, fortunatamente le tecniche e i materiali sono molto migliorati negli anni.
Il mio consiglio, per registi e produttori, è quello di confrontarsi sempre con degli esperti, sin dalla fase di scrittura, oltre che ovviamente in quella di budget, perché il nostro lavoro può influenzare considerevolmente il costo del progetto, ma può essere fatto in tanti modi, deve essere solo individuato quello giusto per il film.

Immaginazione e fantasia per trasfigurare e cambiare la realtà
In un episodio della serie The Outer Limits, The Architects of Fear, del 1963, un manipolo di scienziati mette in atto un piano segreto allo scopo di scongiurare una guerra nucleare: uno di loro accetta di mutare il proprio aspetto per fingersi un sinistro essere alieno e simulare così una minaccia esterna. Secondo le bizzarre dichiarazioni di un’ex ingegnere della difesa USA, Stalin avrebbe ordito una macchinazione simile simulando il famoso incidente di Roswell del 1947 e i suoi grotteschi extraterrestri per destabilizzare l’Occidente, il che rimanda ai cosiddetti Jenny Haniver, ossia creazioni spurie confezionate per dare corpo ad entità mitiche, come il Gigante di Cardiff, famosa burla e truffa orchestrata nel 1869 spacciando una scultura per gigante biblico pietrificato, prontamente emulata dal grande affabulatore e mistificatore Phineas Barnum.
L’egizio Dedi, primo prestigiatore di cui si serbi memoria, vissuto all’epoca di Cheope, era un sacerdote; da allora i sacerdoti sono stati tra i primi e più scafati effettisti. Se l’artista, secondo l’adagio di Picasso, racconta bugie per dire il vero, si colloca tra l’infingardo, l’illusorio, e lo spiraglio su una dimensione trascendente. Ha mai provato il suggestivo e conturbante sentore di essere una sorta di sacerdotessa della fantasia?
Mi piace molto questa visione che proponi, non l’avevo mai presa in considerazione. Io credo che il fantastico sia una metafora della realtà, quindi forse potrei essere una sacerdotessa verso delle verità che il fantastico aiuta a riscoprire. D’altronde il cinema è esso stesso una finzione che riscopre la realtà reinventandola. Noi siamo portatori di mutamento, potremmo dire con la tua analogia di essere i sacerdoti del mutamento, coloro che hanno il compito di trasfigurare la realtà affinché presenti un volto nuovo con cui raccontare sé stessa.

Lei è una persona eclettica, versatile e poliedrica. A quali altre attività si è dedicata e si dedica?
Mia madre mi diceva sempre: Perché non fai una cosa alla volta??? Ma io sono fatta per farne dieci insieme, mischiarle e a volte a portarle a termine in un modo che mai si sarebbe immaginato prima. La cultura Hip Hop e la sua promozione, come ballare break dance, rimangono sempre nella mia top delle attività, per questo ho diretto anche due documentari, One world under a Groove, sulla break dance nell’area euromediterranea, e Break the Siege, su un progetto Hip Hop Italia/Palestina, oltre a due progetti sperimentali, Il Manifesto Antisessista nel Rap Italiano e Sobreviviente. Ho in programma il mio terzo documentario a breve.
l’Hip Hop Cinefest nasce proprio dalla necessità di preservare la cultura hip hop e supportare la distribuzione di progetti come i miei che hanno belle possibilità al di fuori dei circuiti ufficiali.
Continuo ovviamente a ballare con la mia crew di break dance, le Wild Up, e a dedicarmi alla promozione di questa cultura nel sociale come strumento arteducativo.
Oltre a questo, tra le mie altre passioni ci sono la calligrafia araba classica e contemporanea, mi capita di disegnare copertine per libri e manifesti, come di realizzare progetti personali o lezioni universitarie.
Insomma, non si può dire che non ho da fare!