Le intellettuali di Piazza Vittorio: uno spettacolo di Chiara Becchimanzi che fa ridere e riflettere

Le intellettuali di Piazza Vittorio si ispira al testo del grande Molière, Le intellettuali, ma, come ci afferma la drammaturga Chiara Becchimanzi -che ha curato l’adattamento- esistono delle differenze per rendere il testo più attuale. Per la regia di Augusto Fornari, lo spettacolo è in scena dal 28 settembre all’8 ottobre al Teatro Vittoria di Roma, grazie al lavoro e al talento della Compagnia Teatrale Valdrada. Tantissimi sono gli ospiti che saranno presenti sul palco o in collegamento video, ma andiamo a esplorare la scena teatrale con le parole della stessa Chiara Becchimanzi, che, per questa produzione, veste anche i panni di attrice.

Come hai reinterpretato il testo Le intellettuali di un commediografo come Molière? Quali sono i punti in comune e le differenze?

Partiamo con i punti di contatto tra l’adattamento e il testo originale: sicuramente l’evento che fa scaturire l’azione, l’intreccio, ovvero il litigio tra le due sorelle, è ripreso dal testo di Molière. Anche le motivazioni sono le stesse: una sorella desidera sposarsi e costruirsi una famiglia tradizionale, mentre l’altra nega con risolutezza questa possibilità. Abbiamo inoltre cercato di mantenere intatto il numero dei personaggi coinvolti, sebbene alcuni compaiano soltanto occasionalmente in video. Mentre stavo curando l’adattamento, avevo anche ben chiara l’idea di conservare l’andamento lessicale che si trova ne Le intellettuali. Nonostante si esprimano concetti moderni, attuali per la nostra società, la scelta linguistica è aulica, talvolta addirittura in versi. L’allestimento poi è lo stesso: i personaggi presentano sfumature come Molière voleva. Non sono completamente tragici, né comici, mantengono un’ironia a tratti sottile che permette allo spettacolo di rientrare nel genere tragicomico. Alcuni di loro, come le sorelle e il promesso sposo, mantengono delle sfumature più tragiche, ma tutti gli altri hanno il compito di alleggerire portando risate.

La differenza sostanziale è quella dell’origine della famiglia protagonista sulla scena: intanto non si parla di intellettuali, ma di un nucleo familiare italo-iraniano con madre italiana e padre iraniano, con due culture diverse di cui si fanno portavoce le figlie. È così che il loro litigio può essere letto anche come scontro tra cultura occidentale e quella orientale. Infatti Laleh (che in italiano significa “tulipano”) nella scelta di sposarsi richiede anche di indossare il velo islamico, l’Hijab, per mantenere la fede nella religione. La sorella, Azadeh (che tradotto significa “libera”) non accetta la scelta di Laleh e da lì nasce il conflitto. Inoltre tutto ciò che in Molière si trovava come riflessione sulle condizioni della donna di allora è stato tramutato in un’ottica più moderna e attuale. Tuttavia, lo spettacolo rimane una commedia che risponde alle leggi del gioco teatrale. Intrattiene, fa ridere e, perché no, anche riflettere.

L’attrice Chiara Becchimanzi

La commedia inizia con un litigio tra due sorelle su differenti stili di vita: hai detto che si parla anche della condizione della donna. Cosa si può trarre dalla lezione femminista odierna?

Le due sorelle, Laleh e Azadeh, sono figlie di una femminista, di una studiosa che teneva anche lezioni clandestine durante la rivoluzione islamica a Teheran. Azadeh incarna il lato modernista, nella convinzione che la natura femminile sia umana e vada valorizzata indipendentemente dal genere. Rifiuta la tradizione, ma in questo rifiuto totale non ammette nemmeno che la sorella possa desiderare qualcosa di diverso per sé. Laleh, invece, tende alla tradizione, alla stabilità della cultura familiare e al culto religioso del matrimonio.

Con questo spettacolo noi vogliamo omaggiare la complessità del dato reale, non abbiamo l’obiettivo di dare delle risposte certe, ma di far riflettere e porre delle domande. Parliamo del femminismo, ma non abbiamo la pretesa di comprendere tutto e di imporci su una linea piuttosto che su un’altra. È ovviamente importante porci domande sulla figura femminile, perché è un modo di scoprire qualcosa anche di noi stessi. Io credo che entrambe le sorelle siano femministe, ma in modi diversi. Se non si parla di femminismo intersezionale, non esiste realmente un femminismo. Bisogna anche dar risalto alle minoranze e, in questo spettacolo, lo si fa soprattutto sul linguaggio. Azadeh, nel suo essere estrema, non accetta nemmeno il modo di parlare della domestica Tina, con loro da trent’anni, che non ha gli strumenti per un linguaggio inclusivo. È così che la licenzia per aver dato un nomignolo agli artisti che popolano la casa, senza considerare che l’inclusività è un prodotto di studio e non tutti hanno le capacità di comprenderla subitamente.  

Qual è il concetto di libertà che permea la commedia?

Nello spettacolo la libertà è declinata in varie forme. Esiste lo stato di negazione della libertà, nella Teheran della rivoluzione islamica. Un testo su cui mi sono basata molto per scrivere l’adattamento si intitola La gabbia d’oro e rappresenta il concetto di libertà condizionata dagli altri, che diventa quindi una gabbia dorata, una falsa libertà. Io credo, e mi sono sempre sentita dire, che la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri. Dobbiamo prendere atto della libertà altrui per dar valore alla nostra. Azadeh, in questo senso, è il personaggio che ha un arco evolutivo maggiore, fa il vero e proprio viaggio dell’eroe, scende agli inferi e ha una catarsi. Il difetto del suo progressismo è quello di non riuscire a comunicare in modo efficace con chi la pensa diversamente da lei, da qui lo scontro con la sorella. Azadeh contiene grandi contraddizioni e noi riflettiamo insieme a lei. Una grande possibilità della libertà è trovare il modo di comunicare anche con chi vuole credere l’opposto, che la libertà sia limitata, o con chi non ha gli strumenti, come Tina, la cameriera, di applicare la libertà nel proprio linguaggio, per motivi di studio o semplicemente pratici. Lo spettacolo è un incontro di più libertà. Un altro esempio è la scelta che compie Laleh nell’indossare l’hijab, perché attraverso le motivazioni che la spingono interiormente a prendere questa decisione, lei accetta, per valorizzarle, anche a difendere chi, diversamente da lei, non vuole indossare il velo, perché simbolo della cultura musulmana di cui lei si sente parte.

Un ritratto della drammaturga Chiara Becchimanzi

Come hai gestito il ruolo di drammaturga e quello di attrice? Come sei riuscita a coniugarli?

Per essere onesta, è stato molto difficile, perché quando scrivi uno spettacolo, alla fine è come partorire un figlio. Ti fai un’idea sui personaggi che poi invece può essere modificata dalla visione del regista. Però, avendolo scritto, lo sento così vicino al mio cuore che quando sono sul palco le parole mi vengono spontanee.

È stato difficile coniugare i due ruoli, ma ne è nata una bellissima sinergia, utile soprattutto allo sviluppo interiore dei personaggi.

Grazie a Chiara Becchimanzi

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