Il 29 settembre è uscito in tutte le librerie il saggio Wim Wenders Lo sguardo inquieto degli angeli, per la collana “Cineuropa” di Bibliotheka Edizioni, con la prefazione di Massimo Moscati. Tra ottobre e novembre Lo sguardo inquieto degli angeli verrà presentato in varie
librerie e attraverso eventi online.
Autore ed interprete, Riccardo Lestini è anche un ricercatore di storia dello spettacolo. Dai tempi della sua formazione è attento alle sorti degli attori/autori italiani ai quali ha dedicato saggi e spettacoli. La sua creatività viaggia su binari paralleli: si dedica alla scrittura per la scena, alla narrativa e alla saggistica. Scopre nel suo percorso anche la poesia. Chiediamo all’autore con che mezzo di comunicazione si identifica di più, e curiosiamo su che cosa sta facendo attualmente.
Riccardo, sei un autore che spazia dal teatro alla narrativa e saggistica. quali sono le origini della tua arte? Parti dalla scrittura? O, se ti trovi a teatro, puoi partire anche dalle improvvisazioni su un argomento che ti interessa sviluppare?
Il punto di partenza per me è stato sempre rappresentato dalla scrittura. Alle origini di tutto c’è sempre un foglio bianco su cui inizio a fissare degli appunti, suggestioni, idee, dialoghi. Decido poi, man mano che sviluppo gli appunti originali, quale sarà la destinazione, se un romanzo o un
testo per la scena. Il mio teatro è nato come conseguenza della scrittura, cioè ho iniziato a fare teatro quando ho capito che alcune delle cose che scrivevo potevano trovare un’espressione migliore e più compiuta sul palco. Poi, certo, a teatro i margini di improvvisazione sono molto ampi e, soprattutto, infiniti. Nel senso che quando recito un monologo posso cambiarlo di continuo, ogni sera, per anni di repliche, seguendo un’intuizione, l’improvvisazione del momento o le reazioni del pubblico. Cosa che ovviamente con un romanzo o una poesia non posso fare. Ma in ogni caso la scrittura resta l’origine di tutto, il punto di partenza imprescindibile.
Che riflessi hanno nella tua scrittura scenica e teatrale il Lago di Trasimeno e Firenze i luoghi in cui nasci e vivi?
I riflessi sono enormi, al punto che posso dire che togliendo i luoghi in cui sono vissuto di tutto quel che ho scritto resterebbe ben poco, probabilmente niente. Ho un rapporto viscerale con i
luoghi, le città… mi restano addosso, sottopelle. E poi inevitabilmente tornano fuori nelle cose che scrivo. Questo succede con luoghi che amo molto, che ho visitato e vissuto più volte, come ad esempio Roma, Napoli, Dublino, Parigi, la riviera adriatica… figuriamoci con i luoghi chiave della mia vita, il lago Trasimeno, dove sono nato e cresciuto, e Firenze, dove vivo da quando avevo diciott’anni. Il mio libro di poesie uscito dieci anni fa, Solitudini, è costruito come un’odissea, una continua ricerca delle radici e della casa d’origine, il lago Trasimeno è presente in moltissimi versi. A inizio anno nuovo uscirà un altro mio libro, una raccolta di racconti tutti ambientati in un immaginario paese dell’Umbria. Il luogo è immaginario, una specie di Macondo di provincia, ma è ovvio che fa riferimento al mio paese natale, ai luoghi della mia infanzia. Firenze è la città che ho scelto e che amo alla follia, al punto da renderla protagonista di un mio romanzo, Firenze, un film, uscito nel 2020. Diciamo che se il lago Trasimeno è come una madre, Firenze è come una moglie, come la donna con cui ho scelto di passare il resto della mia vita.

Che studi hai fatto sugli attori del cinquecento e che romanzo gli hai dedicato?
La passione per il cinque/seicento e per gli attori della Commedia dell’Arte risale all’università, una folgorazione avuta durante le lezioni di storia del teatro del prof. Siro Ferrone. Un’infatuazione talmente forte che è stato l’argomento della mia tesi e del mio dottorato. Mi sono concentrato soprattutto sulle biografie di questi personaggi. Un minuzioso lavoro di ricerca storiografica di ricostruzione, perché nonostante parliamo di attori e drammaturghi che di fatto hanno inventato il teatro moderno, la storia li ha dimenticati. Negli anni ho pubblicato diversi articoli sull’argomento. Il mio sogno è di riuscire, in futuro, a pubblicare un saggio sulle vite delle attrici cinquecentesche e
seicentesche, donne straordinarie, artiste meravigliose, autrici, poetesse, cantanti. Personalità poliedriche che una storiografia maschilista ha relegato ancor più nell’oblio. Tornando alla questione Commedia dell’Arte in generale, ho deciso anche di scriverci un romanzo,
un romanzo storico ovviamente, ambientato nel Seicento. È un lavoro che sto limando e ultimando proprio in questi mesi. E spero che possa vedere la luce, ovvero la pubblicazione, entro la fine del
prossimo anno.

Qual è il tuo rapporto con la musica? Che studi hai fatto nel campo?Come si ripercuotono sul tuo teatro e sulla tua narrativa?
Come i luoghi, anche la musica è a dir poco fondamentale per me. Devo ripetermi: senza musica, senza le colonne sonore della mia vita, non esisterebbe gran parte di quello che ho scritto e che
sto scrivendo. Non ho competenze tecniche, nel senso che non sono musicista, ma ho studiato storia della musica e drammaturgia musicale, sempre all’università. Poi però i miei interessi specifici sono andati molto al di fuori della musica classica, e mi sono interessato soprattutto di
rock, blues, folk e punk. Oggi collaboro con diverse riviste, una in particolare, in cui ho una rubrica fissa dove racconto la storia del rock.
Nel mio teatro invece, quando scrivo una scena me la immagino sempre con la musica in sottofondo. E lo stesso succede quando sto scrivendo un romanzo, dove finisco sempre per abbondare in quanto a citazioni musicali. I miei tre romanzi Amore e disamore, Il Piccolo Principe
è morto e Firenze, un film sono così pieni di riferimenti ad album e canzoni da contenere delle vere e proprie playlist.

Parliamo dei tuoi libri. Come ti informi sui fatti che descrivi, ad esempio, nel tuo libro dedicato al G8 di Genova?
Dipende. A volte, come nei miei monologhi Arrivederci amore ciao e Tre a Due, non mi concentro su fatti specifici, ma ambiento storie di mia fantasia in epoche passate, gli anni sessanta il primo e gli ottanta il secondo. Mi documento, ascolto i racconti di chi c’era, cerco di cogliere dettagli, atmosfere, profumi e ricrearli con immagini evocative, iconiche e simboliche.
Altro discorso è se l’intenzione è ricostruire e raccontare uno specifico fatto realmente accaduto, come ho fatto in Eseguendo la sentenza. Le ultime 24 ore di Aldo Moro, dove il lavoro è stato proprio di ricerca. Un lavoro diciamo pure certosino, dove mi sono letto e studiato centinaia di
saggi, articoli dell’epoca. Dove ho fatto una vera e propria indagine.
Per Con il tuo sasso, il mio spettacolo (e libro) sul G8, il discorso è ancora diverso. Diciamo che il lavoro è stato molto simile a quello su Aldo Moro, ma con in più il fatto che io a Genova c’ero, ho partecipato a quelle manifestazioni. Di conseguenza l’ho scritto con la lucidità dell’indagine storica e politica e la passione del testimone diretto. Ritengo ancora oggi, forse soprattutto oggi, che Genova sia il vero spartiacque della mia generazione, e raccontarla abbia risposto, e risponda tuttora, a un’esigenza collettiva di identità. E di denuncia necessaria e di necessaria ricerca della verità.
Quando e perché aggiungi ai tuoi mezzi espressivi la poesia?
È una domanda difficile e vertiginosa. Dovremmo chiederci cosa sia la poesia… e non sapremmo rispondere, almeno io non saprei rispondere, perché la poesia è ovunque eppure è qualcosa di altissimo e spaventoso. Io stesso, che scrivo poesie, faccio sempre fatico a definirmi poeta, quasi
mi facesse paura questa parola. Parafrasando De André, uso la poesia ovunque, a teatro, nei romanzi e anche quando scrivo saggi o articoli… ma siccome si dice che dopo i diciott’anni scrivono poesie soltanto i poeti e gli idioti, io precauzionalmente preferisco definirmi uno scrittore.
Cosa cambia per te quando scrivi un monologo, un saggio, un romanzo o una poesia? Cambia tutto dal punto di vista formale e tecnico. Non cambia nulla dal punto di vista del contenuto, perché sono sempre io che scrivo, quindi sono gli stessi temi, le stesse ossessioni, gli stessi demoni, gli stessi innamoramenti. Diciamo che è come dire la stessa cosa in lingue
diverse…

L’insegnamento è per te una necessità o uno stimolo per il tuo iter creativo?
L’insegnamento è il mio lavoro quotidiano, l’unico posto dove vorrei stare ogni mattina. Sono fortunato, sono innamorato della scuola e dei miei ragazzi, ed è un privilegio enorme fare il lavoro che si ama.
Anche quello dello scrittore è un lavoro, ma non posso farlo tutti i giorni. Soprattutto non voglio. Vedi, ora io sono in un momento di creatività quasi esplosiva, scrivo ogni giorno a getto continuo… ma ho passato, e sicuramente passerò ancora, mesi senza scrivere una riga. Perché un romanzo, una poesia o un testo teatrale se non viene non viene, non è che puoi tirarlo fuori a forza. O meglio, puoi farlo, ma allora vai a snaturare un discorso. Almeno per me è così. Io scrivo per me
stesso e poi penso a pubblicare. Se mi imponessi di seguire determinati tempi allora scriverei per gli altri, ed è una cosa che non mi interessa. Io non voglio fare lo scrittore, voglio essere uno scrittore.
Quindi mi sento doppiamente fortunato a fare l’insegnante: è l’unico lavoro che amo, l’unico che so fare e oltretutto mi permette di seguire i miei tempi con la scrittura.
Fantastico.
Parlaci dei tuoi testi teatrali e del tuo percorso nella drammaturgia.
Quando avevo quindici anni ho iniziato a fare teatro. Mi piaceva, ma soprattutto speravo di trovare qualche ragazza, visto che all’epoca i miei successi sentimentali rasentavano lo zero. A parte gli
scherzi, recitavo per gioco e divertimento. Il mio vero interesse era la scrittura e infatti ho iniziato a fare teatro sul serio solo quando ho avuto la possibilità di proporre i miei testi, di propormi come
autore a tutto tondo, come drammaturgo e anche come regista. Ho avuto una prima fase, tra i venti e i trent’anni, dove ho scritto diverse commedie, ma poi, dal lavoro sul G8 in poi, ho iniziato a
concentrarmi sul monologo di narrazione, che è diventato la mia forma ideale di espressione sul palco. Da dieci anni a questa parte, a parte alcune eccezioni, per il teatro ho scritto e diretto (e
interpretato) esclusivamente monologhi, la mia confort zone, la mia casa privilegiata di poetica teatrale.

Due personalità dello spettacolo ti hanno segnato particolarmente: il cantante Jim Morrison e lo sceneggiatore Massimo Moscati. Quali corde toccano in te i loro mondi creativi e che risposte fanno nascere?
A Jim Morrison ho dedicato uno dei miei libri più importanti, la biografia People Are Strange, uscita
l’anno scorso per le edizioni Les Flaneurs. Morrison, come scrivo nella postfazione a questo libro, rappresenta per me il punto di partenza, quel “quid” da cui tutto ha avuto inizio. Era, come per molti altri adolescenti della mia generazione, il mito della mia più piena giovinezza.
Per fortuna non è stato solo un mito. Attraverso i suoi testi ho scoperto la poesia, la scrittura, la musica, il cinema, il teatro… indirettamente Morrison ha gettato la luce su tutte quelle che sarebbero diventate le passioni della mia vita. Senza esagerazioni, posso dire che senza Jim
Morrison non avrei mai cominciato a scrivere. E quel libro, People Are Strange, è stata una sorta di chiusura del cerchio.
Con Massimo Moscati siamo su un altro piano. È stato lui a trovare me, qualche anno fa. Aveva letto un mio articolo su questo incredibile personaggio, Filoteo Alberini, il primo eccezionale pioniere del cinema italiano – perché il cinema, con la musica, il teatro e ovviamente la letteratura, è l’altra grande ossessione della mia vita. E mi propose di scrivere su di lui un libro intero per una collana, “Cinema Italiano del 900” che dirigeva e che aveva appena aperto i battenti. La richiesta
era un po’ folle, visto che di documenti su Alberini ne esistono davvero pochi, ma ero così onorato e così entusiasta che accettai. E il risultato fu il libro Alberini 00. L’uomo che inventò il cinema italiano. Una collaborazione, quella tra me e Moscati, che è proseguita in questo nuovo, ultimo progetto che ha visto la luce in questi giorni. La monografia di un personaggio gigantesco come Wim Wenders, per la collana “Cineuropa” sempre diretta da Moscati. Parlo del libro Wim Wenders.
Lo sguardo inquieto degli angeli, appena arrivato in libreria.
Credo ci sia un importante fil rouge a legare tutto quanto. Wenders negli angeli vedeva quello sguardo inquieto ma puro, incontaminato, capace di cogliere l’essenza delle cose. Lo stesso sguardo che ho trovato in Morrison e che hanno tutti i personaggi delle storie che voglio
raccontare. E che spero tutti quanti voi abbiate voglia di ascoltare.