Il cinema indipendente di Thea Marti, fra la mitologia e il surrealismo.

Thea Marti, laureatasi in regia cinematografica all’Università Roma Tre (Italia), ha completato i suoi studi presso gli atenei di altri paesi, incluso l’Oxford e la Sorbonne, e ha fatto il suo esordio registico realizzando cortometraggi di genere drammatico, horror, dark fantasy. La critica ha elogiato alcuni dei suoi lavori, premiandoli con la statuetta dell’Istituto Luce Cinecittà e riconoscendo anche la sua eccellenza accademica attraverso l’assegnazione della Chevening Award e altre prestigiose onorificenze. Parliamo con la regista dal background internazionale delle sue esperienze cinematografiche e dei progetti che ha in cantiere.

Thea, che rapporto hai con la tua terra d’origine? E con la lingua madre? Il paese delle tue origini è presente nel tuo cinema? Come ti immagini il futuro – dei tuoi progetti artistici e dell’Ucraina?

L’Ucraina sempre rimarrà la mia terra di partenza. Sono fiera di essere quella che sono, e penso, che in parte questo è dovuto al posto da dove vengo: un paese difficile, con una storia molto drammatica. Dall’altro lato, Ucraina è una terra mistica, ricca di racconti popolari, paesaggi mozzafiato, popolata da una nazione fiera, coraggiosa e leale, con una profonda passione per il canto. Mi sento legata ai molti fenomeni culturali dell’Ucraina, incluso la lingua madre, in cui avevo scritto la mia prima sceneggiatura finanziata da un fondo locale. Avevo vissuto un terzo della mia vita tra Cherkasy e Kyiv, dove avevo cominciato il mio percorso artistico e girai il mio primo cortometraggio “La Nazione Felice”, che si era avvalso di un premio in bronzo dell’Istituto Luce Cinecittà. Dopo la mia laurea in Italia, ritornai in Ucraina per produrre un progetto molto complesso, “Rapsodia Nordica”, per cui avevo ricevuto un finanziamento in Italia.

Considerando la situazione attuale in Ucraina, purtroppo, non saprei dire quando potrò riprendere a girare nel mio paese d’origine, ma non perdo la speranza che la pace ritornerà. E allora avrei ben quattro progetti da produrre là: un corto, due lunghi e una serie TV. Anticipo una domanda ormai troppo comune: nessuna delle mie sceneggiature ucraine parla della guerra direttamente per due motivi. Il primo è perché non ero in Ucraina quando siamo stati attaccati dalle truppe russe, e non mi sento in un certo senso “autorizzata” a descrivere le situazioni, che non ho vissuto in prima persona. Questo non vuoi dire che la guerra non abbia lasciato un impronta sulla mia esistenza: non vedo la mia famiglia da due anni, e chissà quando li rivedrò. Il secondo motivo è perché anche se ci sono tante produzioni contemporanee (anzi, la maggior parte), che trattano il tema dell’invasione, credo che bisognerebbe far passare del tempo per parlare degli eventi traumatici in una maniera più o meno oggettiva. Con questo non vorrei in nessun modo sminuire l’importanza dell’attuale cinema ucraino, ma come ho già detto prima, ci sono tanti altri aspetti del mio paese che meriterebbero essere portati allo schermo e dimostrati al mondo. Con il mio lavoro spero di poter contribuire un giorno nella formazione dell’immagine positiva del popolo di questa terra meravigliosa, che si chiama Ucraina. 

Thea Marti sul set del video “Living with the Gods” (India)

Sul tuo sito http://www.theamarti.com ti definisci una cineasta che vive e lavora a Roma. In quale paese stai vivendo e lavorando ora? Come questa nuova terra influisce sul tuo sentire, pensare e creare?

Attualmente sono fuori dall’Italia da quasi tre anni, un periodo molto intenso e fruttuoso. Durante la pandemia ho lavorato in India, poi mi sono trasferita in Spagna per realizzare un mio sogno nel cassetto – cantare il flamenco. Dopo la gala finale a Siviglia, mi sono avventurata ad apprendere l’arte di andare in barca a vela in uno dei più belli posti al mondo – ai Caraibi. Questa incredibile avventura era conclusa con il corto “The Furies”, basato su “Oresteia”, la tragedia greca di Eschilo e prodotto sull’isola di Saint Martin; e anche il soggetto per un lungometraggio “Persephone Rising”, ambientato nella medesima isola ed ispirato ad alcuni veri eventi della mia vita. Quest’estate a Londra ho potuto concludere la seconda stesura della sceneggiatura, basata sul soggetto. “Persephone Rising” è una versione contemporanea della storia di Persefone e Ade, un racconto di passione, potere e scoperta di sé, ambientato in un mondo immaginario delle oscure isole Caraibiche, dove i confini tra la vita e la morte si confondono, costringendo la protagonista a confrontarsi con i propri desideri e le paure più oscure per uscirne trasformata.

In mezzo a tutto ciò, c’era anche un’estate in Svezia, dove ho realizzato un altro corto di terrore “Laundry Service”, in uscita quest’anno. Durante questi soggiorni più o meno fissi ho anche visitato una ventina di paesi tra le isole caraibiche, la Scandinavia, i paesi baltici, il Mediterraneo, i Balkani e il Medio Oriente.

Per il momento abito nel Regno Unito, la roccaforte della tradizioni, e allo stesso tempo un paese molto moderno e avanzato su tanti fronti. Londra è un posto a parte, è una capitale cosmopolita, vibrante, che offre molte opportunità, ma il prezzo da pagare è alto, come i conti ai ristoranti locali: il tempo, il cibo, l’anonimità, la solitudine e la distanza emotiva dei suoi abitanti sono tra i punti deboli di questa mitica città. Londra ha delle location molto suggestive con i suoi oscuri vicoli acciottolati, cimiteri raccapriccianti, edifici del periodo edoardiano e vittoriano – le location per le storie gotiche e di terrore, per eccellenza. Tale viaggio nel tempo potrebbe anche essere perfettamente congiunto con la nostra epoca: ad aiutare saranno i suoi paesaggi urbani industriali, i locali notturni, i servizi digitalizzati e il movimento LGBTIQA+. Credo che la tecnologia sia uno degli aspetti, che caratterizza tanto sia la capitale inglese, che il paese in generale. Mi incuriosice molto, influenzando i temi e soggetti che scelgo. Per esempio, nella mia sceneggiatura “Cassandra Calling” si mischiano alcuni mitologemi con delle riflessioni sulla natura umana e quella dell’intelligenza artificiale. Si inspira al mito di Cassandra, la profetessa maledetta dal dio Apollo per aver rifiutato le sue avance. Di conseguenza nessuno credeva alle sue profezie, ma nonostante ciò si adempivano inesorabilmente.

Dopo un anno a Londra posso dire che nell’ottica dell’offerta culturale e le possibilità di sviluppo personale è il top in Europa, ma senza dubbio è molto gettonata, e quindi c’è tanta competizione in tutti i settori, incluso quello culturale, che sia la musica, il teatro o il cinema e l’audiovisivo.

Thea Marti sul set del film “The Furies” (Saint Martin)

Torniamo un po’ ai tuoi esordi cinematografici. Quali sono i tuoi studi professionali e chi reputi quei maestri che ti hanno formata, direttamente e non?

Ho fatto il mio primo corto, quando stavo studiando le lingue straniere all’Università di Kyiv. All’epoca sognavo di essere un’attrice teatrale, ma nonostante la raccomandazione di un attore molto stimato e famoso, non ero riuscita a passare gli esami d’ingresso all’Istituto dell’Arte Drammatica. Era un colpo terribile. Pensavo di non fare mai più nulla di creativo e per superare il trauma del rifiuto mi ero concentrata sugli studi dell’inglese e il giapponese, che all’epoca era la mia specializzazione all’università. Ma non ci sono riuscita a rinunciare del tutto, e dopo il lutto iniziale mi ero ripresa e avevo pensato a sostituire il teatro con il cinema, e la carriera dell’attrice con quella di una regista. Non avevo mai studiato nulla di cinema, né teoria, né pratica. Quindi, ho cominciato semplicemente a guardare tanti, ma veramente tanti film, soprattutto i classici, dei registi famosi ed importanti. Tra quelli che reputo i miei maestri, ci sono vari artisti italiani, grandi narratori e visionari, come Federico Fellini, Pier Paolo Pasolini e Luchino Visconti. Forse anche per questo avevo poi deciso di studiare il cinema in Italia, e non altrove. Più tardi avevo scoperto i film di Gabriele Salvatores e Dario Argento e ho avuto la fortuna di incontrarli entrambi e poter parlare dei loro film. Anche se mi piace il cinema d’autore, devo ammettere che sento molta più affinità con i film di genere e credo che sia la strada giusta per esprimere la mia voce unica. Apprezzo tantissimo lo stile visivo di David Lynch e Lars von Trier, specialmente le loro corrispettive serie televisive degli anni ’90, “Twin Peaks” e “The Kingdom”, che avevo visto da bambina. Quelli sì che erano dei mondi surreali e dark e mi avevano influenzato senza dubbio. Abbastanza curiosa era la mia scelta di fare la tesi magistrale in letteratura giapponese sulle sceneggiature di Akira Kurosawa. La struttura della sua narrazione è veramente mitica, e credo sia molto importante per un cineasta agli esordi studiare bene le sceneggiature che fanno base dei gran film. Il consiglio didattico della facoltà non era del tutto entusiasta perché il mio soggetto era piuttosto fuori dagli schemi per una laurea in lingue straniere. Eppure, dopo aver saputo che avevo vinto un premio a Roma per il mio cortometraggio di debutto, lo hanno approvato. A volte scherzo che ho tante cose in comune con Sergei Eisenstein, il padre del montaggio moderno: anche lui aveva studiato il giapponese prima di avventurarsi nel cinema muto, e fare i progetti in giro per il mondo, come per esempio, nel Messico. Ancora mi ricordo che avevo addirrittura preso 30 e lode per l’esame sul cinema di Eisenstein e il suo approccio innovativo verso il montaggio. Oggi ringrazio me stessa che avevo studiato il montaggio con diligenza, perché è proprio quel strumento che può veramente salvare un film, che si tratti della inquadratura malriuscita o la pessima recitazione, il montaggio è la bachetta magica. Per quanto riguarda la direzione degli attori, ho avuto la fortuna di conoscere da vicino il lavoro di un regista teatrale ucraino che stimo moltissimo, Vladyslav Troitsky. Decisamente posso dire che anche lui è uno dei miei maestri più importanti. La verità e l’immediatezza che riesce ad ottenere dai suoi attori sono assolutmente imperessionanti. Loro non recitano, ma vivono sul palcoscenico in una maniera talmente intensa e travolgente, che raramente ho visto un pubblico di essere così preso da quello che stavano guardando: sembrava una sessione dell’ipnosi collettiva.

Poi ci sono anche degli altri artisti che apprezzo tanto, come Maya Deren, la madre del cinema sperimentale americano, alla quale ho dedicato la mia tesi triennale; Luis Buñuel e Alejandro Jodorowsky, i loro film erano al centro della mia ricerca magistrale, il grande Ingmar Bergman e l’inquietante Alfred Hitchcock, ma anche Wes Craven e Darren Aronofsky con i loro mondi oscuri, che hanno lasciato una forte impronta sulla mia arte.  

A distanza di anni, come descriveresti le tue esperienze sui set di registi celebri come Krzysztof Zanussi e Michele Placido?

Mentre studiavo al DAMS di Roma Tre cercavo avidamente delle possibilità di avvicinarmi ai “grandi”. Pensavo che solo stando vicino a loro, diventerò anch’io una grande regista di successo. Oggi mi siedo nella poltrona personale di Ingmar Bergman nella sua residenza a Fårö e rido, pensando a queste mie idee ingenui. La grandezza è una cosa relativa. Quello che importa veramente è la passione, la libertà di vivere e di creare in sintonia con se stessi, la soddisfazione di compiere un’opera complessa, di portare alla luce dei talenti altrui e di evolvere con ogni lavoro successivo. Un film come uno spettacolo teatrale è un’opera collettiva, e che sia di gran scalpore o un tremendo fiasco, il primo a rispondere è sempre il regista. Dunque, è un ruolo di prestigio, ma anche di tanta responsabilità, che esige una personalità forte, decisa, capace di sopportare alti livelli dello stress, e mantenere la sua visione fino all’ultimo giorno di montaggio. Non è affatto facile.

La collaborazione con Michele Placido era molto breve: all’epoca facevo un tirocinio alla Latina Film Commission, che aveva organizzato i provini per il suo film “7 minuti”, quindi facevo l’assistente di casting. Anche se ho avuto l’opportunità di conversare con il regista, la maggior parte del tempo ero impegnata con dei candidati e lo staff. L’aspetto positivo era quello di capire come funziona la selezione degli attori per un film di un budget medio-alto.  

La mia esperienza sul set di “Obce ciało” di Krzysztof Zanussi era molto più costruttiva: avevo la possibilità di imparare direttamente dal regista, parlare con lui nelle pause e dopo le riprese, ero un’ospite a casa sua – una situazione molto privileggiata, per cui gli sono eternamente grata. C’erano anche delle sfide implicite: ancora mi ricordo, come Zanussi mi aveva detto che non potrò mica fare dei film per gli italiani, perché non sono nata là e non conosco abbastanza la loro società e i suoi valori. La mia risposta era, che non voglio fare dei film solo per gli italiani, ma per il mondo intero.

Thea Marti con Johan Kuurne sul set di “Laundry Service” (Svezia) 

Secondo te, esiste un’idea di cinema nazionale o il cinema è tutto internazionale, per via del suo linguaggio universale?

Riprendendo la mia risposta alla domanda precedente, direi di sì: esiste un cinema nazionale, che s’è ben riuscito può comunque attraversare dei confini. Per esempio, l’Italia è un paese che comprova questa tesi con grande facilità con la sua commedia all’italiana. È un genere molto radicato nella cultura e la mentalità locale, che proprio grazie a questo è diventato così famoso. È un cinema leggero, spensierato, dolce. È una combinazione perfetta per renderlo appettibile al pubblico che vuole divertirsi dopo una giornata di lavoro. Ci sono delle commedie di vari gradi di successo, ma la quantità del contenuto prodotto ogni anno è talmente grande, che in effetti, ha reso questo genere il marchio distintivo del settore audiovisivo italiano. Nonostante ciò, non sono i film che la critica reputa come dei capolavori.

Credo, che la questione dell’universalità del linguaggio del cinema si applica meglio a quelle produzioni che sono riconosciute a livello internazione, come delle opere d’arte. E in tal caso non si tratta né della nazionalità del regista, nè del paese di provenieza del film. Anzi, spesso e volentieri queste due cose non coincidono. Tra i registi viventi che operano a questa altezza, potrei menzionare Roman Polanski, che pur venendo dall Polonia, ha girato i suoi lavori nei diversi paesi, come la Francia, il Regno Unito e gli USA, ed ha raggiunto il successo internazionale proprio perché la sua intenzione era di fare i film che appellavano agli esseri umani a prescindere della nazione.

Avverti qualche differenza fra il cinema di un paese e quello di un altro? C’è, secondo te, un approccio o, magari, uno sguardo particolare che caratterizzi l’industria cinematografica di un’area geografica? Quali concetti del fare cinema locale ti sono vicini e quali totalmente estranei?

Una domanda molto interessante. Più che della differenza tra il cinema in vari paesi, potrei parlare della mia esperieza personale di riprese in diversi parti del mondo. In alcuni posti, dove ho girato i miei progetti, come per esempio Saint Martin, non c’era quasi nulla per fare il cinema. Voglio dire, zero infrastruttura, zero personale qualificato, zero attori professionisti, attrezzature di base. Eppure, credo che ci sono riuscita a fare un ottimo prodotto. I posti remoti, come le isole, di solito fungono da location per le produzioni estere. Saint Martin non era un’eccezione: anni fa ospitava i set di grosse società americane, ma dopo la devastazione dalle calamità naturali, aveva cessato di essere un centro di produzione cinematografica. Perciò da un lato il contesto lavorativo in quest’isola era molto duro, perché non c’era neanche la disciplina e l’organizzazione necessari per realizzare un progetto dall’A alla Z, né la comprensione di cosa ci vuole per fare un film. Dall’altro lato, invece, c’era tanta voglia di fare, che avevo percepito dalla gente locale. Loro non hanno un cinema nazionale, e sognano di poter crearlo un giorno. È stata un’esperienza molto importante per me di poter contribuire nel mio piccolo alla realizzazione di questo sogno collettivo.

Un altro esempio che posso citare è la mia recente produzione in Giordania, che possiede dei paesaggi molto suggestivi e il potenziale narrativo enorme, però il suo cinema indipendente non è sviluppato abbastanza. È un paese povero e molto viziato dalle produzioni esteri con degli budget enormi. Qui ho trovato faticoso a spiegare che esiste un altro tipo di cinema, che pur non spendendo milioni di dollari, riesce a creare delle belle storie sullo schermo. Dall’altro canto, ho potuto fare certe scene incredibili, che sarebbero difficilmente realizzabili in Europa, e molto, molto più costosi. Anche le condizioni climatiche potevano rendere le riprese più complesse del previsto. Questo fatto non era da sottovalutare e l’avevo scoperto girando tante scene nel mare d’inverno a Saint Martin, e poi nel deserto d’estate in Giordania.

Uno degli aspetti più positivi di questo tipo di esperienze è il bagaglio culturale enorme che mi sono portata al ritorno a casa: la comprensione di varie mentalità, diversi modi di lavorare, pensare, sentire e creare. Non pesa nulla e non ha prezzo.

Quali sono le sette lingue che padroneggi e come ti sono d’aiuto sui set di vari paesi?

Parlo (in ordine di livello di padroneggiamento) ucraino, russo, italiano, inglese, spagnolo, francese, giapponese e ora studio arabo. Credo che parlare con le persone nella loro lingua è estremamente importante, perché in un certo senso è la chiave ai loro cuori. Anche se il livello non è altissimo, quello che conta è lo sforzo, l’intento e la volontà di capire l’altro, aprirsi al dialogo nella maniera più comoda e più sicura per l’altra persona. È una cosa psicologica, ma nel contesto lavorativo funziona impeccabilmente. A parte questo, molti paesi, soprattutto in Europa, non usano l’inglese come una lingua di lavoro predefinita, e quindi senza conoscenza di altre lingue è parecchio difficile navigare sul set.

Thea Marti in giuria del FILMETS Badalona Film Festival (Spagna)

Come nasce la tua società di produzione cinematografica, PhD Films? Dove è  registrata e che film ha prodotto?

Dopo la mia laurea magistrale avevo ottenuto un posto di lavoro in una delle più prestigiose case di produzione e distribuzione cinematografica a Roma. Però a distanza di alcuni mesi mi ero resa conto che il contesto lavorativo seguivava un modello arcaico, basato sull’autorità e l’obbedienza, e non mi faceva affatto felice un ambiente di lavoro tossico. Avevo lasciato la società senza alcun rimpianto, considerata “pazza” dalla maggior parte dei miei colleghi universitari che faticavano a trovare un posto di lavoro in generale, senza parlare della specializzazione. Non mi sono mai pentita della mia scelta e da allora non avevo mai più cercato un lavoro dipendente in Italia o altrove. Mi sono creata un mio piccolo universo, chiamato PhD Films, il marchio sotto la quale ho prodotto praticamente tutti i miei film. La società prende il nome dal dottorato che non ho mai fatto, ma è anche un’allusione alla parola “psychedelic”. È stata fondata a Roma nel 2016 grazie ad un finanziamento del Ministero del Lavoro e Politiche Sociali, mirato a stimolare l’occupazione nelle regioni centro-sud dell’Italia. Ad oggi ho realizzato più di 30 progetti indipendenti (cortometraggi, video musicali, videoarte) in 12 paesi diversi, incluso Italia, India, Albania, Francia, Giordania e Saint Martin. Nel 2018 PhD Films era incluso nei “100 migliori progetti creativi della Regione Lazio” e nel 2023 stiamo aprendo una filiale con la sede a Londra per poter portare la produzione del cinema di genere indipendente ad un livello successivo.

Hai già debuttato come regista di un lungometraggio? Su quale argomento è o sarà questo tuo film e in quale paese è stato/ sarà girato?

Ancora no, anche se ho già quattro sceneggiature scritte. Sono un po’ superstiziosa, quindi sarà una sopresa. L’unica cosa che posso anticipare è che sarà un film di terrore, ambientato in un sogno condiviso, girato in Italia o in Spagna.

Thea Marti sul set del film “Rapsodia nordica” (Ucraina)

Qual è il progetto su cui stai lavorando adesso? Credi che rispecchi l’attualità?

Potrei dire che un marchio distintivo delle mie opera sta nella combinazione non-convenzionale dell’antico e il moderno, la rivisitazione degli miti e archetipi del inconscio collettivo in un mondo contemporaneo. Apprezzo molto un’estetica radicale e sovversiva, sia nella narrazione che nello stile visivo.

Quasi sempre lavoro su più progetti allo stesso tempo. Mi piace questo approccio, perché mi permette di non attaccarsi troppo ad un singolo progetto e avere quelle pause necessarie per lasciar riposare le idee e svuotare la mente. In questo momento sono nella residenza artistica di Ingmar Bergman nella sua amata isola di Fårö, un sogno che finalmente è diventato la realità. L’ambiente in cui sto lavorando è veramente magico, suggestivo, potente, permeato dal lascito bergmaniano e le atmosfere di nordic noir. Grazie al finanziamento dell’Unione Europea sto  la passione per l’alchimia e la magia. L’obiettivo è quello di sviluppare una nuova sceneggiatura dal titolo “Regina Alchemica”. Più che rispecchiare la realità quest’idea si focalizza sulla fantasia e soprannaturale in un melange di culture, posti ed esperienze, riflettendo in un certo senso la mia esistenza. In fondo, credo che ogni opera artistica contiene questa specie di autoreferenzialità. Ci ho provato a fare dei progetti su commissione, ma avevano sempre un’aria alquanto superficiale ed estranea. Quando scrivo di ciò che mi interessa veramente perché in un modo o l’altro mi tocca personalmente, solo allora riesco ad essere autentica.

Un altro progetto che ho in mente nello stato embrionale rigurda le questioni di dinastia e discendenza. Per capire dove andiamo, credo sia molto importante sapere da dove veniamo. A scuola ero molto appassionata della storia. Ho trasferito questo interesse nelle mie sceggiature e film. Ora sono incuriosita dalla mia storia personale, dalla mia propria discendenza. Considerando la situazione attuale in Ucraina, se non vogliamo un’estinzione totale, è fondamentale preservare certi mitologemi culturali, come per esempio, la storia della propria stirpe. E poi la mia famiglia ha delle alte aspettative su di me, non posso mica delluderli ☺

Con quali cineasti internazionali vorresti lavorare e perché?

Come ho già detto, stimo tantissimo David Lynch, Gabriele Salvatores e Lars von Trier. Mi affascinano i loro stili e approcci diversi, molto personali e allo stesso tempo universali, che conquistano il grande pubblico. Con Terry Gilliam ho avuto una conversazione proprio qualche mese fa durante una retrospettiva dei suoi film al Garden Cinema di Londra. Gli avevo proposto di dirigere una delle mie sceneggiature, perché credevo che con il suo metodo visionario lui riuscirebbe a rendere le mie idee in una maniera straordinaria. Invece, dopo qualche mese ho avuto un sogno, in cui Gilliam mi diceva che non avevo bisogno di lui per fare il mio film, avevo già tutto quello che mi serviva e me la sarei potuta cavare benissimo senza di lui. Un sogno molto curioso, forse profetico. 

Resta a ricordare due grandi attori, con cui sogno di lavorare un giorno, Kevin Spacey e Willem Dafoe. Penso che non ci sia il bisogno di spiegare il perché, basta guardare qualche loro film.

Augurando a Thea Marti di realizzare i suoi sogni, vi invitiamo a guardare i suoi film e a consultare il suo sito www.theamarti.com  

Olga Matsyna

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