Federica Pontremoli è una delle più note e apprezzate, nonché prolifiche, sceneggiatrici italiane. Ha lavorato con grandissimi registi come Comencini, Farina, Ozpetek, per non dimenticare poi la lunga collaborazione artistica che la lega a Nanni Moretti. Federica ci dice, in quest’intervista, che senza un fortuito articolo su un giornale che pubblicizzava un corso di cinema, non lo avrebbe mai considerato come un’opportunità di carriera e di vita. E, invece, oggi è qui a parlarci di come il cinema italiano sia meraviglioso, di come il nostro patrimonio culturale ce lo invidiano in tutti i Paesi e del mondo e, soprattutto, che la buona scrittura in una pellicola è la chiave della riuscita del film stesso.
“Il cinema va preso sul serio, con responsabilità” ci dice. E allora scopriamo insieme a lei la sua visione sulla scrittura e sull’arte della cinematografia.
Che valore ha per te la scrittura nel mezzo visivo della cinematografia?
La scrittura del film è l’atto primario della pellicola, la definirei fondamentale perché è ciò su cui si basa il film, oltre alla visione del regista o se il soggetto è tratto da un episodio di cronica o da un libro. La scrittura è la prima pietra, senza la quale non può esistere alcun edificio. Riconoscere una buona scrittura è facile, oserei dire lampante, per gli addetti ai lavori. È come vedere una fotografia con l’inquadratura perfetta o una fuori fuoco, buia. È l’atto fondativo del film, quindi è imprescindibile e anche se poi il film subirà dei cambiamenti, comunque la scrittura è il punto di inizio e deve necessariamente essere buona, altrimenti il film stesso non riuscirebbe a stare in piedi. Credo che lo spettatore possa cogliere una buona scrittura cinematografica come un’intuizione, senza saper bene definirne l’origine. A livello comune, infatti, lo spettatore medio non giudica la sceneggiatura, ma, a suo gusto, il film nell’insieme.
Dagli esordi con un videoclip per Grignani al sodalizio con Nanni Moretti, passando per Ozpetek, Comencini, Farina. Come si è evoluta la tua scrittura negli anni e, soprattutto, come gestisci il rapporto con i registi e gli artisti per completare la tua opera?
C’è da dire che io ho studiato in una scuola di cinema, la quale mi ha fornito gli strumenti per scrivere sceneggiature, che sono dei veri e propri documenti tecnici. La sceneggiatura è uno strano documento, perché la creatività non va mai negata, ma si deve rispettare dei canoni tecnici per prevedere le collaborazioni delle varie figure artistiche. Poi, un altro dato tecnico è come mettere in atto la storia, l’andamento è preciso, con i tre atti del film e un numero di pagine ben definito.
Quando si finisce un film è come chiudere il capitolo di un libro e iniziarne successivamente uno nuovo. Ogni volta è una scommessa con un regista diverso. Non esiste una linea dritta per questo tipo di carriera, ogni volta è un’avventura. Dopo la scuola, ho scritto tutto ciò che mi capitava. Ho partecipato al concorso di soggetti per Sacher insieme a Gianni Gatti ed è lì che ho conosciuto Nanni Moretti al tempo de Il caimano. All’epoca avevo girato il mio primo film, Quore, lui lo aveva visto e gli era piaciuto. Da lì è iniziata la collaborazione con Nanni, ma tra un suo film e l’altro ho lavorato con altri grandissimi registi. Lavorare con tanti registi diversi è la vera scuola, dove si impara a essere professionali e a mettere l’ego al servizio degli altri e soprattutto del film.
Quando è scattata la passione per il cinema e per la sceneggiatura, un particolare tipo di scrittura che si deve piegare ai voleri della macchina da presa?
Io ho frequentato l’università a Genova, mia città natale. Mi stavo per laureare quando andai in un bar e lessi sul giornale Il secolo XIX che Robbiani era tornato dalla Columbia University e indiceva un corso di cinema. All’epoca pensavo che la mia strada fosse fare copywriting pubblicitario e dovevo partire per Milano. Ma qualcosa mi attirò, così chiamai e mi segnai al corso. Lì ebbi la mia illuminazione. Avevo un’infarinatura di cinema, perché, studiando Lettere moderne, avevo dato degli esami di storia del cinema, ma non l’avevo mai considerato una scelta di vita. Quell’anno il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma apriva le selezioni per sceneggiatura. Partecipai con un soggetto scritto durante il corso e superai le selezioni.

Qual è il tuo percorso di costruzione del personaggio: dalla carta al lavoro dell’attore?
È un percorso molto diverso, dipende se si sta scrivendo una serie tv o un lungometraggio. Adesso per le serie tv si scrivono solo schede di personaggi. Lo facevamo alla scuola di cinema. Prima era un percorso che andava di pari passo con la storia, invece in questo momento storico le schede dei personaggi diventano una sorta di seduta dallo psicanalista.
Mi piace inventare storie e situazioni, capire come i personaggi emergono dal racconto e agiscono in base alle scelte che si trovano a compiere. Una grande lezione di Moretti sui personaggi è che lui è sempre attento a non fare assolutismi, il personaggio risulta vero perché sfumato, sorprendente nella sua dolcezza e durezza mischiate insieme. È un buon modo di lavorare, questo. Con Nanni ti puoi permettere di essere contraddittorio.
Devo dire che l’aspetto per cui si è più soddisfatti è vedere la propria sceneggiatura, una sorta di figlia, diventare un prodotto finale, insieme alla visione del regista e degli attori. Non puoi essere rigido in sceneggiatura, devi essere aperto alla sorpresa. La differenza tra la sceneggiatura e il film finito è la misura della bravura del regista.
Candidature ai David, vittorie al Ciak d’oro. Qual è la tua personale definizione di successo? Ripercorrendo la tua straordinaria carriera, qual è il film che hai scritto che ti ha dato più difficoltà e più stimolo a continuare sulla strada della sceneggiatura?
Quando gli altri mi dicono che ho successo, io non mi riconosco in questo personaggio. Vado avanti per tentativi come tutti gli sceneggiatori, provo a scrivere e a dare idee, ma tantissimi progetti non sono andati in porto. Il successo mi piace condividerlo con tutta la squadra. Non lo considero un successo personale, io mi identifico con il film. È una sicurezza che quel film l’ho scritto io e lo posso mettere lì, senza che nessuno me lo tolga. Non mi considero però una persona di successo, sono fortunata a lavorare con persone di grande intelligenza e talento. Questa è la mia personale definizione di successo.

Cosa ti auspichi e cosa vorresti vedere nel cinema italiano odierno?
Mi auguro che parlando di cinema ci teniamo stretti la nostra entità culturale, visto che abbiamo una storia cinematografica fortissima, un modo di raccontare le storie che è solo nostro. Tuttavia, lo stiamo annacquando, spero non perdendo, con delle modalità di narrazione che non sono le nostre, ma più anglosassoni. Non dobbiamo perdere il nostro patrimonio perché è una ricchezza che ci invidiano tutti, persino gli americani. È un peccato che rincorriamo formule che impariamo a memoria, noi abbiamo nel nostro Dna un mondo culturale che ci portiamo dietro per trasformarlo in racconto cinematografico. Adesso rischia di essere travolto dai nuovi committenti che non sono italiani.
Mi auguro che l’Italia produca cinema italiano, diretto e interpretato. Vorrei tante registe donne, non è retorica. Ne vorrei così tante da non saper chi scegliere, vorrei avere una libertà di scelta non solo in quanto donne. Vorrei anche storie il più varie possibile, aperte verso l’esterno e non verso l’interno, verso mondi che sono storie da ascoltare.
Cosa si potrebbe fare per portare una maggiore quota femminile a lavorare nel processo che sta dietro la macchina da presa e non davanti come attrice?
Bisogna rendere conto alle persone, soprattutto alle ragazze, che fare questo lavoro è possibile. Più testimonial ci sono, meglio è. Se io non avessi visto Suso Cecchi D’Amico fare questo lavoro in un mondo maschile, non so se mi sarei mai azzardata. Più si conoscono le figure che fanno questo lavoro, anche nelle scuole e sulle riviste, più comincia a circolare l’idea, la possibilità. Il cinema non esiste come scelta di vita nella provincia. Bisogna portarcelo perché è una possibilità come un’altra e quindi deve essere pubblicizzata.
Un’ultima osservazione. A tutti gli aspiranti artisti cinematografici e a tutti gli scrittori esordienti. Qual è il consiglio più importante da tenere a mente?
È necessario prendere sul serio il cinema, non è un hobby o una scelta secondaria. È un lavoro serio, con cui si può vivere, in qualsiasi settore cinematografico tu voglia lavorare. È un mondo che sembra lontano, ma va preso sul serio e fatto bene, con grande responsabilità. È una cosa bellissima, il cinema, meravigliosa e possibile.
Grazie a Federica Pontremoli.
Nanni, forse il film era il Caimano, dimostra che i film possono essere istruttivi e efficaci nella dialettica politica . Nel film alla ragazza che gli va a proporre una sceneggiatura dice: basta fare film su Berlusconi; ora voglio fare una commedia. E la soggettista diventa una madre lesbica con una figlia avuta con l’inseminazione di sperma. Poi c’è il litigio con la partner che ogni momento si alza dalla tavolata per controllare se la bambina dorme bene nella culla.