Kristine Maria Rapino, classe 1982, ha esordito lo scorso anno con Fichi di marzo, edito per i tipi di Sperling & Kupfer. Il romanzo è stato molto apprezzato da pubblico e critica, per i temi che si propone di approfondire -come la famiglia, la religione, l’importanza della natura- ma anche per una trama ricca e complessa di sfaccettature. È indubbio che la penna della scrittrice ha la capacità di creare storie che vibrano di emozioni, per questo siamo andati a disturbarla per chiederle alcuni suoi punti di vista sul suo esordio. Questo è ciò che ne è scaturito.
Partiamo da questo titolo così particolare: com’è nato Fichi di marzo e da dove è spuntata la genesi del romanzo?
L’idea di Fichi di marzo è nata in un periodo molto particolare della mia vita. Era il 2015 quando nell’arco di pochi mesi ho perso entrambi i nonni materni a cui ero molto legata. È stato necessario per me spostare punto di riferimento, e soprattutto comprendere che non solo era questione di superare il dolore ma anche di rinegoziare un significato da dare all’esistenza, così come accade alla famiglia Guerrieri. Da credente, mi è stato d’aiuto e d’ispirazione un percorso di catechesi, “Le dieci parole”, ideato da don Fabio Rosini. In termini di trama, invece, una Giornata di Primavera del FAI durante la quale ho visitato antichi mulini ad acqua e i locali di un pastificio abruzzese non più in funzione mi ha motivato a condurre ricerche sulla straordinaria ricchezza di una delle tradizioni più antiche della mia regione.
Nel romanzo, uno dei temi centrali è senza dubbio la famiglia. Che cosa rappresenta per te -ci sono degli elementi autobiografici- e per i personaggi del libro?
La famiglia è il tema centrale non solo del romanzo ma anche della mia vita. È stata la ragione di tante scelte controcorrente delle quali non mi sono mai pentita, che mi avrebbero portato a un’esistenza forse più caotica di quella che sto conducendo adesso. Non ci sono elementi autobiografici nel testo, non è la mia famiglia che ritraggo, ma il valore che vi attribuisco sì. Per me la famiglia è il luogo della scoperta dell’identità, della definizione dei confini, della trasmissione genetica di un corredo emotivo e culturale imprescindibile per la costituzione dell’individuo. Questo non la rende esente da conflitti, anzi. Esistono a volte difficoltà relazionali tra genitori e figli che conducono all’incomunicabilità, e quando questo accade è una ferita profondissima che gli adulti si portano dietro e che influenza inevitabilmente gran parte delle scelte successive. In fin dei conti, però, anche quando imperfetta così come lo è quella di tutti, la famiglia è il luogo a cui tornare per ricominciare portando con sé le proprie fragilità nel desiderio di sentirsi compresi, accolti. Per provare a volersi bene comunque.

Un’altra presenza molto forte è quella della religione, in particolare quella cristiana. Che valore ha per i protagonisti di Fichi di marzo e si rispecchia anche allo stesso modo nella tua vita?
La fede mi ha salvato più volte dall’individualismo più sfrenato, dalla tentazione di bastarmi. Mi ha concesso di aumentare le misure precauzionali per non sprecare la mia esistenza inseguendo traguardi professionali che in fin dei conti non sarebbero stati in grado di corrispondermi. Sarebbe una storia lunga da raccontare, la grande passione per il teatro e il mio passaggio dalla provincia al mondo dorato di Cinecittà, ma posso dire di aver rinunciato senza rimpianti a percorsi che forse mi avrebbero allontanato da ciò che amo davvero. Il mio posto è accanto agli ultimi, e questo non l’avrei mai compreso senza un cammino di fede che mi svelasse come ci sia più gioia nel darsi che nel dirsi. Non ho alcun talento particolare per questo, sono frangibile e fallibile come tutti, ma ho scelto di coltivare una quotidianità molto semplice basata sulla gratitudine, dove al primo posto ci sia Dio. Ai personaggi della famiglia Guerrieri accade lo stesso rovesciamento di prospettive: è la didattica della sofferenza che li spinge a cercare un senso, ad alzare lo sguardo, fino a scoprirsi compartecipi di un progetto più ampio che contempli la possibilità di renderli tutti straordinari, a prescindere dal proprio valore umano.
Parliamo della Capanna di Betlemme che compare nel romanzo con il suo provvidenziale aiuto. Che cos’è questo luogo magico e perché è essenziale?
La Capanna di Betlemme di Chieti che cito nel romanzo esiste davvero, è un luogo reale, anzi direi che è autentico. Se di famiglia si parla nel contesto dei Guerrieri, anche qui se ne conserva tutto il calore. Lo definisci “luogo magico” a ragione perché lo è, nel senso che ha effetti prodigiosi su chi ha la possibilità di conoscerlo. Si tratta di una casa d’accoglienza gestita dall’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII che accoglie chi vive particolari situazioni di disagio sociale ed economico, come i senza fissa dimora, le donne strappate al racket della prostituzione insieme ai loro figli, nonché i nuovi poveri, le vittime della solitudine e i padri separati. La bellezza della prossimità in un luogo come questo si manifesta nel superamento di ogni legame di sangue in nome di un bene superiore, nella consapevolezza che ci si salva solo insieme. Non è raro sentire uno dei bambini ospiti della Capanna chiamare zio o nonno un senza fissa dimora, che in quel ruolo riacquista così la dignità di una persona amata. Fortunatamente strutture come questa sono presenti in varie zone d’Italia, ma forse se ne parla poco, perché come spesso accade il bene non fa notizia. È proprio ciò che mi ha spinto a scriverne, la necessità di un’inversione di tendenza: l’erba che cresce deve tornare a fare più rumore dell’albero che cade.

Io so che tu lavori nel sociale, e in questo libro se ne sentono gli influssi, soprattutto per quanto riguarda l’inclusione. Anche il personaggio di Anila ce lo dimostra. Cosa dovremmo fare per promuovere l’inclusione sociale? Qual è il ruolo delle istituzioni? Secondo te, manca un lavoro anche di educazione culturale?
Noi siamo già “inclusi” in un progetto nel quale non contano affatto le categorie, le etichette attribuite dalla società. Secondo me non è neppure un discorso di istituzioni, ma di umanità: riconoscersi fratelli nel senso più ampio del termine, a prescindere dal proprio credo, etnia o estrazione culturale, perché condividiamo questa porzione d’esistenza non in termini di coabitazione, ma di reciprocità. Si tratta piuttosto di creare una coscienza collettiva, un’etica. Siamo tutti amministratori di una provvidenza laica ed è nostro compito gestirla nella consapevolezza che siamo tirati in ballo in questa avventura ognuno nella propria indispensabile diversità, che piuttosto arricchisce. Il resto dovrebbe essere anche una questione di merito, serietà e responsabilità. Partendo da questa necessaria uguaglianza sul piano umano, bisognerebbe poi guadagnare con il proprio impegno la considerazione in ambito lavorativo, non per l’attribuzione di etichette.
Nel romanzo sono presenti donne molto forti -Eva, Diamante, Gemma-. Ai tuoi occhi, che cosa significa essere una donna, per di più, che deve sopperire in una famiglia alla mancanza di uomini?
La donna ha una longevità di sguardo sbalorditiva. Senza nulla togliere agli uomini, che secondo me devono continuare a mantenere il loro ruolo nella famiglia perché si conservi salda nei suoi intenti e nella definizione delle regole, la donna detiene il primato sulla meraviglia. Parafrasando un pensiero del filosofo Vito Mancuso, l’archeologia del bene sono i nove mesi nel ventre materno. La donna ha la capacità di rigenerarsi, rialzarsi, reinventarsi, forse prima e meglio degli uomini, proprio in funzione di quel bene assoluto, e di sopperire a diverse mancanze a costo di grandi sacrifici. Le donne del mio romanzo identificano diverse declinazioni di questa femminilità anche un po’ all’antica, se vogliamo, nelle quali la maternità, a prescindere dalla fecondità biologica, è un istinto salvifico più che un ruolo imposto del quale la società di oggi sta cercando progressivamente di farci disinnamorare. Noi siamo genitrici, nel senso che generiamo sempre, e questo difficilmente potrà esserci tolto.
Altro tratto meraviglioso di Fichi di marzo è la passione per la natura: non possiamo non citare Ammiraglio. C’è stata molto ricerca per le competenze zoologiche di Arturo?
Comincio col dire che sono un veterinario mancato. Da piccola volevo curare gli animali, per i quali ho una devozione viscerale, in particolare per i cani. Non mi è stato difficile, quindi, allinearmi alla passione di Arturo, che per lui è diventata un’opportunità di ricerca anche in ambito internazionale, nonché di superamento dei propri limiti relazionali. Per quanto riguarda le specifiche competenze relative al mondo degli asini, di grande aiuto è stato l’incontro con il dott. Eugenio Milonis, presidente della rete italiana degli Interventi Assistiti con gli Animali, normalmente indicata come Pet Therapy, nonché direttore di un importante centro di Onoterapia a Introdacqua (AQ). Ho scoperto come non solo questi animali da sempre al servizio dell’uomo sono più intelligenti di quanto si creda, ma si sono dimostrati anche particolarmente empatici e predisposti al contatto umano, dunque adatti agli scopi terapeutici. In generale, gli animali, così come la natura, ci sono di grande aiuto per recuperare la sapienza della lentezza e una profondità di sguardo che Arturo, al contrario degli altri, sembra non aver mai smarrito.
Concludiamo con il motto del romanzo: Per la famiglia Guerrieri, la pasta non è mai solo un piatto di pasta. Come ci spieghi questa bellissima immagine?
Non lo è nel senso che rappresenta anche il legame con le nostre origini, perché il cibo è cultura. Quanto intende tramandare ai suoi figli Giordano Guerrieri, pastaio da tre generazioni, è proprio questo: nel piatto di pasta mangiato oggi c’è anche la fatica di chi ieri lavorava l’impasto a piedi nudi nella madia, del grano trasportato sulle mulattiere, delle mani delle donne pieni di geloni, dei canti, della tradizione dei nostri antenati. E ancora, c’è il gusto della convivialità italiana, la sacralità della tavola attorno alla quale riunirsi non solo per mangiare ma anche per ristabilire un contatto umano che altrimenti, nella fretta che contraddistingue i nostri tempi, andrebbe perso. In altre parole, c’è la famiglia.
Grazie di cuore a Kristine Maria Rapino.