Solo riconoscendo il Volto dell’Altro, asseriva il filosofo Emmanuel Lèvinas, è possibile comprendere autenticamente il mondo e noi stessi. E il segreto dell’Altro alberga nell’Ascolto, nell’apertura, nell’accoglienza, nella responsabilità, nel rifiuto del primato depauperante dell’Io. Questi preclari principi sembrano sottendere e intridere Il canto di Marino – L’Autismo raccontato ai bambini, prezioso volume, semplice e complesso al contempo, della poliedrica Giada Giorgini, la quale ci parla di autismo infantile protesa, con provvida e sagace delicatezza e genuinità, ad invitare ed esortare i piccoli – e gli adulti – all’Ascolto e al superamento di ogni infido pregiudizio… Insieme all’autrice, sondiamo la genesi e le radici del testo.

L’Autismo infantile si rivela un universo tutto da conoscere ed esplorare, permeato di creatività e immaginazione, ne Il canto di Marino di Giada Giorgini
Formatasi come educatrice professionale e specializzata presso l’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, ha svolto le attività di insegnante, educatrice e coordinatrice di laboratori creativi per vari istituti e realtà quali l’Istituto Cavazza/ Unione dei Ciechi e Ipovedenti e la Cooperativa CIDAS (qui in veste di Operatrice SAI per Minori Stranieri non accompagnati), impegnandosi fervidamente nel sociale e nell’approccio alla diversa abilità, facendo altresì tesoro delle competenze comunicative acquisite tramite le esperienze di responsabile delle attività creative/culturali, di addetta alle vendite e di bibliotecaria. Eclettica e versatile, si dedica con alacrità alle attività più disparate: è piccola imprenditrice, ceramista, pittrice, animatrice, artista di strada, attrice e formatrice teatrale Kamishibaya, cimentandosi altresì in lavori di piccola sartoria creativa, nel riciclo originale di oggetti in disuso, nella scelta oculata di capi vintage, nel restauro creativo di mobili e nell’allestimento di locali, mettendo sempre in campo, con competenza e zelo, un connubio di passione, estro, sensibilità, inventiva e intraprendenza. Prossimamente, entro l’autunno, si adopererà nell’avviare una nuova attività creativa ed imprenditoriale, aprendo un sito Ecommerce concernente un Brand da lei ideato, G.E.G., relativo alla creazione di giocattoli educativi, e si dedicherà altresì alla realizzazione, attraverso la tecnica cianotipica, di stampe che utilizzerà a guisa di scenografie nel teatro portatile da lei costruito. Come poetessa e scrittrice, ha redatto alcuni componimenti raccolti nell’antologia Impronte, edita dalla storica rivista Pagine di Elio Pecora, ha ottenuto un premio della critica al Festival Internazionale delle Emozioni del 2015 con la poesia Occhi Chiusi, ed è autrice de Il canto di Marino – L’Autismo raccontato ai bambini, edito dal Centro Editoriale Dehoniano nel 2018, l’opera che ci accingiamo ad analizzare…
[per consultare la pagina Instagram di G.E.G. : https://www.instagram.com/geg140887/?igshid=MzRlODBiNWFlZA%3D%3D ]
Innanzitutto grazie di essere qui con noi. Potrebbe illustrarci, nel modo più debito e puntuale possibile in questa sede, il percorso che l’ha condotta alla stesura di questo libro? Da dove nasce il suo interesse congiunto per la psicologia infantile e per le diverse abilità?
Questo libro non è nato con l’intento di una pubblicazione, bensì dall’esigenza di metabolizzare una esperienza lavorativa molto forte che mi ha permesso di poter rimettere in discussione la mia visione del mondo, affinando l’attenzione alle piccole cose: suoni, profumi, movimenti, rendendomi consapevole di quanto la “Propriocezione” (particolare forma di sensibilità e percezione, ossia la capacità di riconoscere il corpo all’interno dello spazio) fosse trascurata nella nostra quotidianità “normotipica”. Tra i 12 e i 14 anni ho dovuto affrontare uno sgretolamento famigliare tutt’altro che sereno. Nell’Oratorio del mio paesino di montagna avevo riscoperto un rifugio sicuro. Così ho intrapreso una prima formazione di stampo Salesiano per diventare Animatrice.
Desideravo profondamente trasformare il mio dolore in uno strumento per la prevenzione della sofferenza di chi si ritrovava ad affrontare momenti di difficoltà, oppure in un sostegno a tutti coloro che come me si percepivano “diversi” e spesso “inopportuni” al contesto di appartenenza sociale.
In un secondo momento mi sono interessata all’Antropologia con indirizzo “Scienze delle Religioni” per poi arrivare al percorso di “Educatrice Professionale”, con un’ attenzione particolare all’utilizzo di strumenti e mezzi alternativi come il Teatro di Strada, la Musica e l’Arte della Ceramica.
Perché la scelta di soffermarsi e dedicarsi preminentemente all’autismo con componente non verbale?
Non è stata una scelta.
Ogni anno, in base alle esigenze scolastiche, ad ogni figura educativa veniva e viene tutt’ora affidato/a un bambino o una bambina con necessità di affiancamento.
Era la mia prima esperienza con l’Autismo. Malgrado avessi letto libri, riscontravo continuamente la necessità di sviluppare nuove sensibilità e avevo sempre più sete di scoprire strumenti più efficaci.

Il timore di ciò che non si conosce
La sua opera sembra screziata e soffusa al contempo di un qualcosa alla Gianni Rodari, autore contraddistinto da un lirismo sempre attento al sociale. Quali sono state, se ne ha avute, le sue fonti di ispirazione?
Non ho fatto altro che descrivere ciò che vedevo e percepivo, immaginandolo appetibile ai coetanei del bambino che seguivo e agli adulti che mal vedevano la sua “diversità”, perché la diversità non esiste.
Esiste la paura verso ciò che non si conosce.
Attraverso l’amore per la lettura, ho imparato sin da bambina a sentirmi meno diversa, ma sempre unica. In un contesto talvolta chiuso e ostico come può essere quello di un paesino di poche anime, in cima al cucuzzolo di una montagna; personaggi come Polissena del Porcello di Bianca Pitzorno, ”Jo March”, protagonista del romanzo Piccole donne scritto da Louisa May Alcott e pubblicato nel 1868, così ribelle e sempre pronta a rompere gli schemi, Prisca di Ascolta il mio Cuore, in cui la scuola si trasforma in una battaglia e ne succedono di tutti i colori, Brunisa di Una Valle Piena di Stelle di Lia Levi, che a tredici anni pensa che il destino le abbia fatto fin troppi dispetti: un nome stravagante, le leggi razziali di Mussolini, la guerra che devastava l’Europa e metteva in pericolo le vite di milioni di ebrei come lei; una storia meravigliosa e avvincente, questi e molti altri personaggi non hanno fatto altro che sostenere e rafforzare il mio spirito e il mio amore per la vita e mi hanno aiutata ad affrontare le sfide di tutti i giorni attraverso l’uso dell’immaginazione come strumento di libertà estrema.
Vi è dunque nel libro qualche elemento autobiografico, il riferimento ad una esperienza vissuta?
Come anticipavo nella prima risposta, si!
Nasce dall’esigenza di metabolizzare una esperienza lavorativa molto forte. Non ero pronta, ma non si è mai pronti ad affrontare il così denominato: Autismo.
Non volevo scrivere un libro che lo spiegasse. Di fatto, non volevo proprio scrivere un libro. L’intento era quello di raccontare una storia, che potesse fungere da strumento di lavoro e inclusione in termini scolastici, attraverso progetti ed organizzando gli ambienti di apprendimento e le attività, in modo da permettere la partecipazione alla vita di classe, nella maniera più attiva e autonoma possibile.
A tutt’oggi sappiamo ancora troppo poco sui meccanismi neurologici dell’autismo.
Nel 2016 ho avuto il privilegio di partecipare al XXIII Convegno Internazionale di INPP su Neurosviluppo in Educazione e Apprendimento con la presenza di Sally Goddard Blythe, direttrice di INPP International.
Goddard e molti tra i più importanti pionieri delle neuroscienze internazionali hanno approfondito concetti e ricerche su: il Riflesso di Moro, il Riflesso prensile, che sono solo alcuni dei riflessi che possono essere coinvolti in situazioni di difficoltà di apprendimento o comportamentali. E’ stato per me così illuminante e mi ha permesso di avere un confronto ravvicinato con menti brillanti, rivoluzionarie e in continua ricerca.

Chi non parla la nostra lingua ce ne insegna un’altra
Nel suo libro paiono potersi ravvisare anche affinità con la Astrid Lindgren di libri come Vacanze all’isola dei gabbiani (Vi på Saltkråkan, 1964), dove la natura gioca un ruolo rilevante. Perché questo poderoso richiamo al mondo naturale, in particolare quello riguardante il mare?
“Guardare la bellezza della natura è il primo passo per purificare la mente” scriveva Amit Ray.
Sono cresciuta in un antico borghetto ai piedi dell’Appennino Tosco-Emiliano, circondata da campi di patate, fitte macchie di bosco, il canto del Gallo alle prime luci del mattino e del Merlo al tramonto.
In realtà il richiamo al mare non è altro che una metafora, utilizzata già in passato da Uta Frith, autorevole psicologa tedesco-britannica, studiosa dello sviluppo mentale, che ha definito i bimbi con disturbi dello spettro autistico: “ Bambini Pesce” [il che fa sovvenire con repentinità alla mente figure leggendarie come Colapesce N.d.R.] per il loro silenzio e per il mistero che li circonda.
Nella sua sobria, diretta, quasi scarna semplicità, il suo volume è tuttavia sotteso da un’arguzia e una raffinatezza molto particolari: il narratore è esterno e onnisciente, pertanto apparentemente distaccato e rarefatto, eppure ci viene elargita un’intima e intensa connessione, una piena partecipazione al punto di vista del piccolo Marino, che potrebbe ricordare alcune sottili, audaci ed avvincenti pagine in particolare della narrativa fantastica, come quelle concernenti il Minotauro e il Drago Fafnir ad opera di Jorge Luis Borges, oppure il brillante e sagace romanzo Grendel, 1971, di John Gardner, ove il terrifico avversario di Beowulf si rivela vittima di incomunicabilità e solitudine, una creatura smarrita e stralunata che cerca di comprendere il perché dell’astio umano nei suoi confronti.
Una simile scelta esorta il piccolo lettore alla compassione nella sua accezione più profonda, quella promanante dal fatto, come scriveva Terenzio, che nulla di umano può esserci alieno, essendo tutti e tutte una cosa sola. Questa evidente particolarità è il risultato di una scelta meditata e ponderata, spontanea o un misto fra le due cose?
La Compassione è un sentimento per il quale un individuo percepisce emozionalmente la sofferenza altrui desiderando di alleviarla.
No, non è alla Compassione prettamente di stampo cattolico che esorto, ma al significato più profondo di Empatia, intesa come “Sentire dentro”, per esprimere una modalità di accesso all’altro, con piena coscienza. Sentire empaticamente non è una conseguenza automatica del nostro tempo, soprattutto oggigiorno, in cui prevalgono sempre di più la diffidenza e la paura verso il diverso da noi.
Ha definito “sobria, diretta”, semplice in modo quasi scarno la narrazione di Marino, ebbene vorrei ricordare un grande classico della letteratura che tengo ancora come un tesoro nella mia libreria: Bandiera di Mario Lodi.
La storia di Bandiera è molto semplice, ma viva e vivida, visto che tutto nasce dall’osservazione diretta di una foglia di ciliegio, “diversa” dalle altre. Questa foglia ha un nome, si chiama Bandiera perché sventola sul ramo più alto di papà Ciliegio.
E’ così che con grande naturalezza, senza volermi paragonare a un gigante della letteratura per bambini, le cose si raccontano da sole, attraverso l’osservazione attenta del mondo che ci circonda, dell’altro.
Mi viene in mente il Fortuna Drago che salva Atréju dalle Paludi della Tristezza e diventa suo compagno di viaggio, dimostrando una delle sue più grandi capacità: quella di comunicare con i serpenti, comprendendo cosa dicono, spiegando infine che tutte le voci della gioia sono imparentate fra loro. Dopo avere aiutato Bastiano a riacquistare la memoria e la sua identità.

… Il Bambino non si stupirebbe se si risvegliasse Dio…
Volevo togliermi ora una curiosità, fare una piccola ed apparentemente incongrua e peregrina digressione per verificare una mia ipotesi: il piccolo Marino squaderna il proprio interiore, per molti difficile da sondare, con la perspicua prorompenza tipica dell’infanzia. La narrativa di genere contiene le figure dei cosiddetti Evil Children, tra cui si annovera il piccolo ed inquietante protagonista del racconto di Jerome Bixby It’s a Good Life, 1953, dotato di immani poteri coi quali soggioga la propria famiglia, la propria cittadina e il mondo intero; sconcertante è l’affinità che esso presenta con il Gesù dell’apocrifo Vangelo dell’infanzia di Tommaso (forse II Secolo d.C.), ove l’irruenza dirompente del Cristo bambino ne attesta la statura sacra. L’atteggiamento tremebondo degli adulti verso il vulcanico anelito di affermazione assoluta dei fanciulli presenta un aspetto implicitamente sovversivo, poiché riconosce come il sopraggiungere della loro fresca prospettiva abbia il potere di destabilizzare e sfilacciare le pretese fondamenta di un sistema gerarchico. Voleva forse, sotterraneamente, giocare anche con questo aspetto?
Molto semplicemente mi richiamo a un libro che ho molto amato: Cuore di Ciccia di Susanna Tamaro. Il tema della solitudine, i “problemi “di Michele, la freddezza, il distacco glaciale di una madre perennemente insoddisfatta del figlio e fin troppo schiava delle apparenze. “C’è un mistero al mondo, o meglio, ce ne sono tanti, ma uno tra tutti è più importante, ed è questo. Mentre i bambini capiscono sempre cosa vogliono i grandi, i grandi non capiscono quasi mai cosa vogliono i bambini”.
Ritorno col citare un altro libro di Mario Lodi: Cipì. La storia di un passerotto curioso, che fin dal primo giorno di vita vuole scoprire il mondo che lo circonda, fugge dal nido, si perde, e così facendo mette a rischio la sua vita.
La vicenda vera e propria di un atto politico ribelle.
Cipì, il “passero eroico” come lo definisce Gianni Rodari, “prova e sbaglia, sbaglia e prova e, a un certo punto, si scopre una vocazione inaspettata che è quella di aiutare i suoi compagni ad affrontare quanto di brutto incontrano nel corso della loro vita: la fame terribile dell’inverno, le trappole dell’uomo, le astuzie del gatto, gli occhi ingannatori della civetta.”
Mario Lodi, un grande rivoluzionario dell’educazione tradizionale che ha portato in Italia le tecniche di Célestin ed Élise Freinet.

Citando ancora la fantascienza, nel racconto di Murray Leinster The Strange Case Of John Kingman, del 1948, l’inusitata e misconosciuta natura di uno straordinario extraterrestre viene travisata da un gruppo di esseri umani che lo considerano un curioso caso da rinchiudere e trattare in manicomio. La vicenda esplica il pericolo di restare attanagliati e languire in un contesto angusto, depauperante ed oppressivo, il destino paventato dalla psicologa Alice Miller non solo per il bimbo plusdotato ma per ogni bambino.
Nel suo volume questo aspetto traspare poderosamente. Educare un bambino “diverso” , non conforme, è in primis educare l’ambiente circostante?
Rispondo a questa domanda con una citazione di Jim Sinclair, un attivista del movimento per i diritti dell’autismo che, con i colleghi autistici Lissner Grant e Donna Williams, ha formato “l’Autism Network International” nel 1992: “Quello che è normale per altre persone non è normaleper me e quello che ritengo normale per me non lo è per gli altri.
In un certo senso sono mal <<equipaggiato>> per sopravvivere in questo mondo, come un extraterrestre che si sia perso senza un manuale per sapere come orientarsi.
Ma la mia personalità è rimasta intatta. La mia individualità non è danneggiata.
Ritrovo un grande valore e significato nella vita e non ho desiderio di essere guarito da me stesso.
Concedetemi la dignità di ritrovare me stesso nei modi che desidero; riconoscete che siamo diversi l’uno dall’altro, che il mio modo di essere non è soltanto una versione guasta del vostro.
Interrogatevi sulle vostre convinzioni, definite le vostre posizioni. Lavorate con me per costruire ponti tra noi”.

Dialogare con i bambini senza il protervo intento di indottrinare, bensì comunicando con il loro animo e mettendoli nei panni altrui, significa sempre gettare un ferace, fertile seme. In uno dei suoi saggi il filosofo Georges Bataille scrive che il bambino non si stupirebbe affatto se si risvegliasse Dio messosi da sé stesso alla prova: tra i molteplici significati di questa frase vi è quello secondo cui il percorso di consapevolezza e di crescita intrapreso dal bambino interessa sempre, ineluttabilmente, il mondo intero.
Quale messaggio vorrebbe dare agli adulti, maestri e maestre, educatrici ed educatori?
Mi sono interrogata spesso sulle caratteristiche, e sulle competenze acquisite attraverso l’esperienza e soprattutto la formazione, che la mia figura professionale doveva possedere per poter intervenire in modo fruttuoso, a supporto dei processi di trattamento. Essere Educatrice in una relazione con l’Autismo significava, e significa ancora oggi, essere in continua evoluzione/rivoluzione, in continua crescita professionale, in continuo ascolto di sé stessi e dell’altro/a, di esigenze anche lontane da quanto avviene abitualmente con altre forme di fragilità.
Significa confrontarsi con situazioni in cui la persona, le famiglie, le istituzioni scolastiche e tutti i soggetti coinvolti nel percorso educativo richiedono obiettivi molto elevati, caratterizzati dall’unicità di ciascun intervento.
Modalità comunicative specifiche, sviluppo di processi/ragionamenti alternativi, un’attenzione speciale alla sensorialità, alla gestione della frustrazione per il mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati, i cosiddetti “comportamenti problema”, l’inadeguatezza diffusa delle strutture e la misconoscenza del mondo autistico da parte di molti attori scolastici.
Non meno rilevante, la continua necessità di rielaborare le “ Tempeste Emozionali” e le condizioni di criticità estrema che spesso si scatenano negli Educatori stessi.
In ogni modo, “Complicare è facile, semplificare è difficile” diceva Bruno Munari; “La vita è molto semplice, ma noi insistiamo col renderla complicata”, diceva Confucio.
L’ineguagliabile valore della semplicità credo sia un prezioso modo per tornare all’Essenza delle cose. Agire in modo semplice e diretto, centrando il cuore del problema. Snellire e togliere, evitando di aggiungere, aggiungere, aggiungere.
“Questo è stato uno dei miei mantra: concentrazione e semplicità. Semplice può essere più difficile del complesso: devi lavorare sodo per rendere il tuo pensiero pulito per renderlo semplice. Ma alla fine ne vale la pena, perché una volta arrivato lì, puoi spostare le montagne”, Steve Jobs.