Un cinema pioniristico, visionario, culturale, espressvio. Nichetti disegna (ed è proprio il caso di dirlo) un Cinema unico nel proprio genere. La favola si impasta ocn la storia, il cartone diviene il personaggio principale e le emozioni entrano di diritto nello spessore della commedia. Ci sono ancora anni di televisione prima di arrivare al 1990. Continuiamo la nostra passeggiata alla (ri)scoperta di Maurizio Nichetti.
(la prima parte dell’intervista qui – la seconda parte dell’intervista qui)

Dalla televisione a Volere Volare. Semplicità, follia e capacita di infrangere le barriere della logica. Un cinema unico nel suo genere a firma Nichetti
Torniamo alla Tv: Berlusconi le propone il programma Quo Vadiz?, è il 1984. Realizza assieme a Don Lurio e Sidney Rome dodici puntate che risulteranno eccezionali, al punto che gliene propongono altre 24. Lei ringrazia, ma declina. Follia o genialità?
Ero obbligato. Quo Vadiz? era un varietà vecchio stile. Sketch, balletti, canzoni coreografate, film in animazione, tre ore di copione mai ripetitivo. La televisione aveva necessità di inventare altri format. di trovare altri tormentoni su cui appoggiare una stagione intera. Il modello Drive in o, molto più tardi, Zelig, suddividevano tra tanti interventi comici la responsabilità di una puntata e ogni comico inventava un personaggio con tic, modi di dire, battute ricorrenti. La televisione aveva bisogno di modelli replicabili all’infinito. Don Lurio aveva finito le sue basi musicali, Manuli aveva trasmesso le sue animazioni, io volevo essere sempre originale, non volevo ripetermi e la serialità televisiva obbligatoriamente ripetitiva mi spaventava.
La stessa follia o genialità che quando in Rai le proporranno di far divenire il programma per ragazzi Pista!, dopo 2 anni di assoluti successi (1986/87), una striscia quotidiana da Napoli, lei una seconda volta ringrazia, ma declina. Vorrei domandarle se oggi, trascorsi molti anni, non crede forse che la sua sete di novità, curiosità e slancio non abbia in qualche modo imbrigliato la sua carriera che avrebbe potuto approdare magari, a pubblici molto più ampi?
Nessun rimpianto. Ho sempre scelto di fare quello che ritenevo più giusto per me e per il mio futuro. Non ho mai pensato ai guadagni o ai contratti più vantaggiosi. Ricordo che queste offerte mi erano state fatte negli Anni Ottanta. Io avevo ancora voglia di cinema e di lì a pochi anni avrei fatto Ladri di Saponette, Volere Volare, Stefano Quantestorie, Luna e l’Altra. Oggi mi ritroverei con tante ore di trasmissione in più dimenticate e quattro film in meno da ricordare.

Ma nel mezzo c’è appunto Il Bi e il Ba. Per la prima volta dirige ma non recita, lasciando ampio spazio ad un giovanissimo Nino Frassica. Il pubblico e la critica sono divisi sull’esito del film. Se tornasse indietro cambierebbe qualcosa? E come mai scelse proprio Nino Frassica.
Il Bi e il Ba non era un mio progetto. Nicola Carraro co-produttore con Franco Cristaldi dei miei primi tre film mi segnalò a Giovanni Bertolucci che voleva fare un film con Frassica. A me, frate Antonino da Scasazza, piaceva molto, e tra le sfide che potevo affrontare, quella di un film tutto basato sui giochi di parole non mi dispiaceva per niente. In più nel cast avevo scelto tutti attori comici di razza come Nino Terzo, Leo Gullotta, Luca Sportelli. Diana Dei… Il film, non è stato fortunato all’uscita, ma, nel tempo, ha acquisito un suo pubblico e una sua popolarità molto forte. A Milano avevano aperto un locale chiamandolo il Bi e il Bar dove ogni settimana proiettavano il film come un Rocky Horror qualsiasi e tutti insieme precedevano le battute di Frassica che avevano imparato a memoria…
Rivedendo il film mi sono imbattuto nella medesima sensazione che ho provato dinanzi alla pellicola di Woody Allen, Basta che funzioni, del 2009. Film estremamente esilarante ma con un retrogusto aspro dato dal vedere il ruolo del protagonista Boris Yellnikoff interpretato dal comico Larry David e non dallo stesso Allen. Si è mai posto la domanda se forse sarebbe potuto andare diversamente qualora il personaggio di Antonino Scannapieco lo avesse interpretato lei?
Non sarebbe stato possibile. Woody Allen si fa sostituire da attori che, a volte, recitano le sue battute di sceneggiatore. Io non saprei recitare affidandomi così tanto ai giochi di parole e, difficilmente, avrei potuto trovare, in altre occasioni, un mio omologo nel campo della comicità visiva, muta.
Sempre nel 1985 viene chiamato in tv per una miniserie firmata da Sergio Citti, Sogni e bisogni. Che ricordo ha di Citti, del suo modo di scrivere il Cinema.
Sergio Citti era un poeta. Un creatore di soggetti molto bravo. Quando mi ha proposto la parte di un immigrato del Nord che torna a casa sua dopo anni di lavoro all’estero, lo ha fatto con l’entusiasmo di chi sta raccontando una favola. Ci siamo trovati benissimo a lavorare insieme, malgrado le nostre diversissime esperienze e personalità.

Passano quattro anni e realizza Ladri di Saponette, pellicola in bianco e nero, interrotta dalla pubblicità a colori. E’ anche il primo film che la vede come produttore. Può raccontarci come nacque l’idea di questo film, ancora una volta in uno stile pienamente controcorrente e per quale motivo decise di realizzarlo per Mediaset e non per la Rai?
Eravamo alla fine degli anni ’80, quelli che avevo iniziato con Domani si balla!. Avevo lavorato per la televisione tre anni e mi piaceva fare un film che si occupasse di come lo spettacolo televisivo e l’abitudine di interrompere i film con la pubblicità avessero cambiato, in modo irreversibile, le nostre abitudini di spettatori. Anche la Rai interrompeva i film addirittura col telegiornale di mezza sera. Non volevo sembrasse un film contro le televisioni private, ma contro la televisione come elettrodomestico catalizzatore delle nostre serate familiari. Per questo ho chiesto a Mediaset di produrlo e Berlusconi, dopo il successo del film in tutto il mondo, lo ha anche regalato in formato VHS a tutti i suoi dipendenti e clienti per il Natale 1989.
Non solo nel titolo, ma anche nella forma, un pieno omaggio al periodo neorealista. Come era pensabile, nella scia degli anni ’80 che avevano visto l’Italia godere di un pieno boom economico, decidere di girare un film in bianco e nero?
Era una nuova sfida. Avevo già fatto un film muto nel 1979, perché allora non fare un film in bianco e nero nel 1988?
Il taglio fantastico del film ha un qualcosa di unico, anzi, un qualcosa che ancora una volta lo lega a doppio nodo con il Maestro di Manhattan, Woody Allen. In Ladri di Saponette, Antonio, il regista da lei interpretato sta presentando in tv un film che omaggia il periodo neorealista, Ladri di saponette, per l’appunto, i cui personaggi addirittura si chiamano allo stesso modo di quelli ideati da Vittorio De Sica nel ‘48, in Ladri di biciclette. Ad un tratto però, l’irrompere di un improvviso black-out porta i vari personaggi e lo stesso regista all’interno del film da lui diretto in un completo stravolgimento della trama. Allen aveva girato 4 anni prima La Rosa Purpurea del Cairo, dove in maniera simile faceva fondere diegetico ed extradiegetico in un intreccio innovativo, e due anni dopo la sua pellicola, nello stesso anno in cui lei dirigerà Volere Volare, realizza Ombre e Nebbia, pellicola in bianco e nero che omaggia il Cinema Espressionista tedesco. Sembra che vi siate accavallati in tutto e per tutto. Da parte sua completa casualità o forse c’è un qualcosa di vero in quell’etichetta che la definisce a torto o ragione il Woody Allen italiano?
Direi pura casualità. Amavo Woody Allen, ma non avrei mai saputo scrivere dialoghi belli come i suoi. Sulla situazione visiva, invece, mi sentivo preparato e in quel genere di film Ladri di Saponette occupa un posto buono. Semmai le casualità continuano qualche anno dopo quando in America (dove Ladri di saponette era uscito con grande successo di critica) esce un film come Pleasantville (1998), dove dei personaggi a colori entrano in una vecchia serie televisiva in bianco e nero. Peccato che nel 1998 il trucco venisse realizzato digitalmente, mentre nel 1988 noi lo avevamo ottenuto con effetti meccanici, con mascherini e contromascherini su pellicola.
Da quest’ultima sua risposta, sembra quasi avere dell’amaro in bocca per non avere l’opportunità di lavorare oggi, dove i mezzi a sua disposizione avrebbero potuto agevolare notevolmente la sua creatività. O forse è solo una mia sensazione?
Ci ho pensato anch’io. Non troppo, ma ci ho pensato. Ho sempre lavorato sperimentando tecniche innovative, utilizzando linguaggi differenti, ho realizzato film a tecnica mista in tempi in cui far coabitare reale e virtuale non era certo semplice. Poi ho smesso di occuparmi di cinema proprio contemporaneamente all’avvento del digitale e all’acquisizione da parte di molti delle tecniche di compositing, oggi indispensabili anche in film reali. Sembrerebbe un controsenso. Forse una ragione c’è. Ho sempre realizzato, produttivamente parlando, un cinema povero.
Budget contenuti e controllo completo di tutte le fasi di lavorazione, dall’effetto speciale, al montaggio, alla sonorizzazione. Con l’avvento delle tecniche digitali sono nati molti altri profili professionali, tecnici specializzati nella realizzazione dell’effetto speciale che, a volte, si possono anche impadronire del set.
I film hanno allungato i titoli di coda, aumentato i budget e tutti, disponendo di soldi, possono, oggi, realizzare film con personaggi virtuali, invisibili, scomponendo e ricomponendo ogni inquadratura mille volte. Tutto questo è meraviglioso, ma mi ha tolto la soddisfazione di essere io a immaginare, preparare e risolvere ogni nuova idea, ogni sorpresa. Non è vero che oggi non si fanno più film a tecnica mista come una volta. La verità è che li possono fare in molti per uno spettatore che non si stupisce più di nulla. Forse per questo, dal 2004 ho accettato, per sei anni, di occuparmi di cinema di montagna, esplorazione e avventura (Direzione Artistica al Festival di Trento). Un cinema documentaristico, ma unico. Nessun effetto speciale a pagamento, ma imprese che, ancora una volta, potevano e dovevano essere fatte e raccontate individualmente.

E’ il 1990, l’anno di Volere volare. Maurizio, protagonista del suo film è un rumorista. Credo per la prima volta si porta in scena uno dei lavori più particolari e a mio giudizio interessanti dell’universo cinematografico. Come mai decise proprio di interpretare un rumorista?
La genesi della sceneggiatura di Volere volare (fatta con Guido Manuli) è durata più di otto anni. Durante tutto quel periodo continuavano a cambiare i mestieri dei due protagonisti. Alla fine un rumorista di cartoni animati, che indossava i rumori dei personaggi disegnati che doveva doppiare, ci è sembrata una buona soluzione per rendere credibile una trasformazione impossibile.
Solo il personaggio di Maurizio, che viveva tutti i giorni immerso in realtà animate, avrebbe potuto credibilmente ritrovarsi con dei guanti gialli disegnati come un novello Topolino, del quale abbiamo adottato anche le proporzioni.
Volere volare sembra porsi anche come risposta italiana a Chi ha incastrato Roger Rabbit, seppure venne scritto diversi anni prima. Se le produzioni italiane avessero avuto i mezzi (e i soldi), la sua pellicola avrebbe completamente riscritto la storia dell’animazione moderna. Questa volta un piccolo rimpianto possiamo annotarlo?
Forse sì, forse no. Nel 1982, alla prima stesura del soggetto, ci saremmo buttati in una tecnica mista con cartoni animati bidimensionali. Ci volevano gli americani con i loro budget e la loro voglia di innovare per aggiungere ai personaggi disegnati anche le ombre. Una meraviglia stupefacente in un’epoca ancora lontana dalle tecniche di animazione 3D. Quando con Manuli, e con tutto il mondo dell’animazione italiana, abbiamo visto Roger Rabbit, abbiamo capito che era finita l’epoca delle due dimensioni. Di colpo Mary Poppins era diventato un film del passato. Ora i cartoni animati avevano conquistato il diritto ad avere delle ombre, una profondità mai vista prima. Non sapevamo ancora se mai saremmo riusciti a portare in porto il progetto, ma eravamo obbligati a farlo anche noi con l’aggiunta di ombre ai personaggi disegnati. Ho avuto la fortuna nel 1988, durante la presentazione di Ladri di Saponette in America di visitare lo studio che aveva lavorato alla post-produzione di Rogger Rabbit, riconoscendo, nella loro sede, le stesse macchine che avevamo anche noi a Milano. Non c’erano misteri tecnologici, solo un certosino lavoro di mascherini e contromascherini (mostrato negli extra del DVD di Volere volare) che potevamo realizzare anche noi in Italia. Al mio rientro, è iniziata la lavorazione del film, e tutti eravamo certi di riuscire a non sfigurare con la nuova tecnica utilizzata in Roger Rabbit.
Come le venne la voglia di divenire cartone animato, quando appunto ancora non era neppure stato messo in cantiere Roger Rabbit?
Per un mimo, sceneggiatore di cartoni animati, era un destino segnato. Ci avevamo pensato anni prima. Domani si Balla!alla prima stesura del soggetto, raccontava di un’invasione della Terra da parte dei cartoni animati (Tim Burton avrebbe realizzato nel 1996 Mars Attacks!). Ci siamo però accorti subito che il progetto sarebbe diventato troppo costoso e improponibile quindi Domani si balla!. Divenne un’invasione della Terra da parte di Musica e Ballo (molto meno costosi di un’animazione) e l’idea di un’invasione a disegni animati passò al progetto successivo, ma anziché un’invasione mondiale, ci accontentammo dell’invasione di un corpo (quello del protagonista) da parte dell’animazione. Una metamorfosi privata, scatenata da un innamoramento improvviso e inaspettato. In fondo quando ci si innamora si cambia sempre un po’, non crede?

Assolutamente. In questo film troviamo delle scene incredibili che vale assolutametne la pena citare. Mi riferisco ai due architetti baffuti che si trovano la mattina a casa di Martina semplicemente per vederla spogliare, all’impiegato interpretato da Scarpa che la fa sedere sulla fotocopiatrice per avere le sue mutandine su carta, la coppia di necrofili, il rapinatore che ama essere insultato… e molti altri. Come è riuscito a strutturare un contorno così funzionale ad un film assolutamente unico nel suo genere?
Tanti anni di lavoro, tante riscritture, tanti cambiamenti, senza mai perdere la voglia di divertirci, io e Guido Manuli, prima degli spettatori. Ricordo l’emozione quando avevamo messo a punto il profilo professionale del personaggio di Angela. E’ stato difficile immaginarlo, ma poi è stato facilissimo scriverlo. Ogni deviazione sessuale diventava un pretesto per una gag: il voyeur, il feticista, il necrofilo, il masochista… Un piccolo aneddoto: noi inventavamo tutto e se, una nuova follia, ci faceva ridere era un buon segno. Sul set ci siamo trovati molto imbarazzati con il proprietario dell’Azienda che ci ha fornito la fotocopiatrice. Continuava a chiederci ma cosa dobbiamo fotocopiare? voleva sapere il tipo di carta, il colore, che taratura doveva prevedere. Si capiva il suo grande professionismo e noi non avevamo il coraggio di dirgli che Angela avrebbe dovuto sedersi sopra per una gag surreale.
Quando l’ha capito ci ha aiutati molto, con la calibrazione della messa a fuoco e, senza nessun imbarazzo, ci ha detto che era un rito di iniziazione per tutte le nuove impiegate dell’ufficio.
Era il secolo scorso. Io e Guido non eravamo abituati ad essere superati in follia dalla realtà.

Il 1993 è l’anno di Stefano Quantestorie. Anche in questo caso si fa precursore di un modus operandi che al cinema delle Major si presenterà con Sliding Doors e su Netflix si svilupperà ancora, in uno stadio più avanzato, con l’episodio interattivo di Black Mirror, Bandersnatch. Mi riferisco allo sdoppiarsi della storia a seconda delle scelte fatte da un personaggio. Che portata avrebbe potuto avere il suo Stefano, se le produzioni italiane avessero dato maggior credito alla sua visione a 360° dell’intendere il Cinema?
Qui non saprei rispondere. Nel 1993, dopo aver realizzato con grandi difficoltà tecniche, Volere volare, volevo fare un film in cui l’unico effetto speciale presente fosse la sceneggiatura. Da lì e dalla visione in una sala di New York, in realtà più baraccone da fiera che sala, di un prototipo di cinema interattivo, nasce la storia di Stefano. Un film molto autobiografico. Stefano ha vent’anni nel 1968 e partecipa alle prime occupazioni della sua facoltà. Non sa neppure lui tutti i destini diversi che lo aspettano e, la sceneggiatura, ci permette di raccontare sei differenti vite di Stefano adulto, tutte accomunate da una rapina, in cui, in un modo o nell’altro, era destinato a partecipare. Mi piaceva pensare che la vita di ognuno di noi potrebbe essere stata diversa, mantenendo la stessa famiglia di origine e, probabilmente, anche gli stessi amori. Solo anni dopo, con l’avvento del DVD e della possibilità di presentare degli extra, ho pensato che la storia si sarebbe prestata ad una narrazione interattiva in cui lo spettatore avrebbe potuto scegliere tra più opzioni, vite diverse per il personaggio. Non credo che nessuno si sia neppure accorto di questo extra particolare (spero ci sia presto una riedizione di questo DVD) ricordo, però, molto bene la reazione dei responsabili della produzione del DVD che, interessati alla nuova proposta, mi hanno chiesto subito se potessi applicarla anche al Ciclone di Pieraccioni, nuova scoperta cinematografica di quegli anni.
Come le venne l’idea di chiamare Elio e Le Storie Tese per la scrittura della colonna sonora del film?
Apprezzavo molto il loro lavoro come gruppo e stimavo Sergio Conforti (Rocco Tanica) e Paolo Panigada (Feiez) che di fatto si sono occupati direttamente della colonna sonora. Era un lavoro molto complesso poiché le sei vite di Stefano richiedevano sei momenti musicali distinti, spaziando dal rock alla lirica, e solo musicisti raffinati come loro avrebbero avuto la possibilità di coprire generi e sensibilità così differenti.

Trascorrono altri due anni e arriva Palla di Neve, questa volta dirige, Villaggio, Gullotta, Haber, la Bellucci e la Falchi. Seppure il film mantiene la sua carica favolistica, tipica del suo modo di narrare, sembra per certi versi lontano dal Nichetti creatore e visionario. Si trova concorde su questa analisi o crede che forse ci sia qualcosa di non compreso o inespresso in questo film?
Palla di neve è stato un film realizzato su commissione. Per il resto sono stato abbastanza libero in fase di sceneggiatura (realizzata con Gianni Romoli e Stefano Sudriè) e condivisa anche con Ciro Ippolito produttore e ideatore del progetto. Mi piaceva l’idea di lavorare con Paolo Villaggio, che conoscevo solo professionalmente, mi sono appoggiato a Gullotta e Haber, colleghi e amici che stimavo e mi sono fidato di Ciro Ippolito che per i due ruoli femminili è riuscito ad avere i due nomi emergenti più importanti dell’epoca in Italia: Monica Bellucci e Anna Falchi. E’ stata una bella avventura, una favola evergreen dovuta alla storia vera raccontata da Emilio Nessi nel suo libro omonimo, a cui tutto è stato liberamente ispirato. La sfida era di fare un film immerso nella natura e negli abissi del mare, con un beluga protagonista e un budget ridicolo. Per intenderci avevamo a disposizione, per tutta la produzione, l’equivalente pagato in America solo per realizzare il modello dell’Orca usato per Free Willy, successo mondiale di un paio d’anni prima.
Uscire vivo da questa avventura, con un film montato che ancora oggi viene trasmesso per le famiglie alle feste comandate, è stato uno dei successi di cui posso andare davvero fiero.

A seguire, e siamo nel 1996, realizza Luna e l’altra, un film che mantiene viva la sua cifra stilistica inconfondibile, ma che forse per la prima volta fornisce spunti di riflessione non solo favolistici. Che ricordo ha di questa pellicola e come le venne l’idea di raccontare la storia di una donna abbandonata dalla propria ombra.
Come altri miei progetti anche questo è stato a lungo in lavorazione per la scrittura. Avevo già reso credibile un uomo che diventa un cartone animato, ma far dialogare un personaggio femminile con la propria ombra distaccata e autonoma era una storia che mi spaventava e affascinava nello stesso tempo. La paura di non essere chiaro, di banalizzare la proposta, di rischiare una trama in cui Luna e la sua ombra non fossero raccontate come un unico personaggio… tutte riflessioni che ci hanno spinto in fase di sceneggiatura (firmata da me, Stefano Albè, Laura Fischetto e Nello Correale) a cambiare molte volte direzione. Alla fine abbiamo trovato l’epoca giusta per questa storia. Gli anni ’50, gli anni della mia infanzia, della mia scuola elementare, ecco un’altra favola molto autobiografica. I caratteri del preside e del professor Caimi, li ho presi da ricordi personali e con la scenografa (Mariapia Angelini) abbiamo ricostruito interni e atmosfere con una pignoleria maniacale. In una rubrica telefonica dell’epoca utilizzata sul set in casa di Luna, ho ritrovato il mio numero telefonico del 1952, un’emozione.
Per certi versi è anche l’unico suo film che propone spunti politici. Al direttore che si autodefinisce politicamente neutrale, contrappone e affianca il maestro nostalgico del Ventennio fascista e il bidello che con la banda ai funerali suona Bandiera Rossa. Sembra quasi la faccia di un’Italia perennemente in bilico tra dovere e volere.
Erano gli anni ’50, gli anni di Peppone e Don Camillo. Professori nostalgici nella scuola ce n’erano così come i funerali di quartiere senza preti ma con le bandiere rosse. Ricordo che li vedevo passare sotto casa… E’ una favola piena di miei ricordi. La festa degli alberi, ad esempio, l’avevo vissuta in prima persona in quarta elementare. Dovevo tenere un piccolo albero, mentre due ragazzi di quinta scavavano il buco per piantarlo. Oggi in Piazza Insubria a Milano ci sono alberi ad alto fusto che ombreggiano un parco giochi. Sono gli alberi che avevamo piantato noi nel 1957. Devo dire che il ricordo mi emoziona.
Anche in questo film, come in diversi dei precedenti sembra sfidare le verità aristoteliche di Tempo, Luogo e Azione. Dipinge una Milano nel primo decennio post-bellico intrisendola di concezioni avveniristiche e dirigendo un’azione come di consueto elegante e fantasiosa. Eppure la critica non supportò la pellicola come avrebbe dovuto/potuto, nonostante i molti riconoscimenti ricevuti. Che idea si è fatto a riguardo?
A dire il vero il film vinse due nastri d’argento assegnati proprio dalla critica cinematografica: miglior film e miglior regia dell’anno. Poi, come sempre, qualcuno non avrà gradito il tono da favola della pellicola. Il neorealismo fantastico, dalle nostre parti, ha sempre trovato qualche resistenza, mentre all’estero il film è stato apprezzato moltissimo, venendo anche inserito a Los Angeles nella cinquina dei film stranieri ai Gloden Globe, il tutto senza distribuzioni o produttori potenti.

Ed arriviamo al suo ultimo film per il cinema, per ora, Honolulu Baby, del 2001, dove torna a vestire i panni dell’Ingegner Colombo. Sembra incredibilmente un cerchio chiuso. Da Ratataplan (una delle cui scene apre proprio il nuovo film) per l’appunto ad Honolulu Baby. Torna Colombo/Nichetti più vecchio di venti anni e con ancora molte cose da dire: ridisegna il tema del viaggio, reale e non onirico, che piuttosto che mutare, moltiplica. Che può raccontarci di questa pellicola?
Pellicola non fortunata. La lavorazione è stata particolarmente accidentata e, il tutto, ha causato un ritardo nel montaggio del film che ci ha fatto perdere importanti finestre distributive. Il film è uscito all’inizio dell’estate a stagione, praticamente conclusa. Ancora oggi non ho piacere a ricordare tutte le traversie distributive di questo lavoro che mi ha fatto capire come fosse venuto, per me, il tempo di fare altre esperienze.
Ma una domanda vorrei comunque fargliela. Anche in questo film vi è un tema a me assai caro, ossia quello del doppio: due viaggi, due colleghi di lavoro, due automobili, due infedeltà. Tutto sembra duplicarsi per esigenza di risolversi nel proprio opposto. E’ frutto di un Nichetti più maturo, o un’esigenza di sviluppare nuove tematiche di comunicazione?
Honolulu Baby è un film che ha anticipato di una decina d’anni alcuni temi mondiali relativi allo sfruttamento di certi territori e alla diseguaglianza tra paesi ricchi e paesi poveri. Naturalmente ogni problema era trattato attraverso la favola, una metafora, un gioco di sponda che non è mai stato rappresentato come un discorso politico o sociale diretto, esplicito, didascalico. Ma Colombo nel film decide di portare l’acqua in una zona desertica, anziché rubarle il petrolio. Tutto questo, va ricordato oggi, alla vigilia della rivoluzione digitale del cinema. Il film è stato girato in 35 mm, ma, secondo al mondo, (il primo mi risulta essere stato Fratello dove sei? dei fratelli Cohen del 2000). ha avuto una postproduzione digitale, una color correction e un’effettistica tutta digitale, riportata, solo alla fine, su un supporto di celluloide per la proiezione nelle sale, non ancora attrezzate per trasmettere digitalmente. Inoltre il film prevedeva una webcam sui luoghi della lavorazione per mandare in diretta streaming il set e usava, in modo ingenuo, i primi social per postare un finto diario di lavorazione giornaliero di una stagista della troupe (nella realtà tenuto da una cosceneggiatrice del film al seguito delle riprese: Giovanna Carrassi). Erano già state studiate gag da far crescere in Rete e da ritrovare poi sullo schermo cinematografico a film finito. Un esempio: la stagista, nel suo post giornaliero confessava, terrorizzata, di aver dimenticato in scena la propria borsetta e in effetti in una certa scena del film, compariva in un angolo una borsetta estranea all’azione. Un gioco che non è mai scattato veramente per due motivi. Il film uscito all’inizio dell’estate non ha avuto una vita facile e la banda larga e le decine di migliaia di follower della Rete non si erano ancora sviluppati a dovere. Mi è dispiaciuto il fallimento di questa intuizione, forse troppo in anticipo sui tempi, più che la non buona riuscita del film, che, chi fa cinema lo sa, può sempre capitare.
Un infinito grazie a Maurizio Nichetti.
(la prima parte dell’intervista qui – la seconda parte dell’intervista qui)