Si può essere registi, fotografi, esploratori, ricercatori e documentaristi dei grandi problemi sociali ed ambientali? La risposta è sì e la si evince dal lavoro svolto da Klaus Thymann, mirabile narratore del nostro tempo. Siamo andarti a disturbarlo nella sua Danimarca, per farci raccontare in che mondo viviamo.

Un mondo che dovremmo proteggere e di cui dovremmo curarci. Questo racconta l’espressività artistica di Klaus Thymann, da sempre attento all’emergenza climatica
Prima di tutto, grazie Klaus per averci concesso questa breve intervista. È un vero piacere per noi presentare il tuo universo creativo ai nostri lettori. Partirei dalla tua capacità di offrire un punto di vista assolutamente unico nel tuo lavoro, riuscendo a mescolare giornalismo, esplorazione, documentario e attenzione sociale. Come sei riuscito a coniugare tutto questo?
Per me, in realtà, la frammistione di generi è un procedimento ovvio e mi sembra naturale avere un set di abilità disciplinari incrociate, che possano spaziare da un versante all’altro, ma posso capire che dall’esterno può apparire come un qualcosa di molto complesso. In realtà, per me, non lo è.
A partire dal 2010, quando la mia carriera stava andando davvero alla grande, mi sono preso del tempo per studiare e conseguire una laurea in Scienze Ambientali; ero, e sono ancora, appassionato di ambiente, così laurearmi è stato un processo assai divertente. Addirittura poi è divenuto qualcosa che potevo usare nel mio lavoro. Così è nata una nuova branchia del mio intervento artistico. Spesso sento dire che quando si parla di ambiente serva maggiore consapevolezza, io la vedo diversamente, credo che abbiamo bisogno di azione. Per questo mi sento a mio agio nel cercare, attivamente, di influenzare degli interventi, mescolando arte e scopo sociale al fine di sostenure il lavoro della scienza.
Se poi mi chiedi come faccio a gestire tutto ciò, ti direi che è una bella domanda, e non sono nemmeno sicuro di riuscirlo a fare sempre, ma lavorare su diversi progetti che si sovrappongono, lo trovo molto divertente. La passione è un ottimo carburante.

Sei un fotografo pluripremiato. Vorrei chiederti cosa rappresenta per te la fotografia e come la consideri in qualità di mezzo di comunicazione.
Questa è una domanda difficile. La fotografia è cambiata. Mi piace molto e lo considero sempre un mezzo fantastico, ma, rispetto all’inizio, è un mezzo diverso. Quando ho iniziato, ero convinto che una singola immagine potesse trasmettere emozioni potenti e fosse in grado di racchiudere una storia. Non ne sono più tanto sicuro. Man mano che mi sono evoluto, la mia visione attuale di espressività è troppo complessa per lavorare solo nella fotografia. Lì, tu fissi il tempo, l’immagine lo ferma. Quel momento può riferirsi ad altri momenti nel tempo, ma l’immagine ha un timestamp. Sono arrivato ad un punto in cui mi piace lavorare con le tempistiche e spesso i miei progetti si sviluppano nel corso di molti anni. Alcuni dei modi per trasmettere il tempo sono l’uso di immagini comparative e/o una serie di opere. Ho lavorato con i ghiacciai per più di un decennio e con questo lavoro ho utilizzato il tempo per mostrare il cambiamento climatico, stesso discorso con il mio progetto che documenta lo spostamento della città artica di Kiruna. Se non avessi fatto un lavoro di comparazione non sarei mai arrivato a quei risultati. Ecco perchè non è più sufficiente una semplice fotografia. A questo possiamo aggiungere che andiamo troppo di corsa, in tutti i sensi, e non abbiamo più nemmeno il tempo per goderci la vista di una bella fotografia e forse questo ha diluito l’effetto meraviglia, che una volta mi riservava. Chiaro che nello spazio di un museo o di una galleria la fotografia funziona ancora, ma nel dominio pubblico l’accelerazione ha alterato la percezione e questo è un qualcosa che bisogna accettare.
Sei un membro della Royal Geographic Society. Cosa significa e quali compiti hai nell’essere parte di una delle aziende più importanti nella diffusione della geografia tra gli studenti, ma non solo.
Essere un membro della Royal Geographical Society è un riconoscimento di cui sono orgoglioso. Mi sono reso conto quando ho presentato la domanda che avevo effettivamente fatto molto. Era una specie di “Ok, ben fatto Klaus”, ma poi bisognava andare avanti. C’è tanto lavoro importante da fare. Personalmente ho sempre avuto molta fiducia nella scienza e nel pensiero scientifico, così come nell’aspetto collaborativo, nella metodologia e nel rigore. I valori sono importanti e la Royal Geographical Society li rispetta in pieno.

Sei sempre stato un esploratore particolarmente attento all’emergenza climatica. Vorrei chiederti in che condizioni si trova, secondo te, il nostro pianeta e quali potrebbero essere, nel suo piccolo, gli interventi che si possono intraprendere per risolvere alcune delle principali criticità emerse negli ultimi anni.
Mi verrebbe da risponderti: “Non così male come la gente pensa, molto peggio!” Mi arrabbio così tanto quando vedo decenni di interventi sprecati con un niente. Politici, aziende e opinione pubblica pensano che la soglia per limitare i gas serra, sia un obiettivo ambizioso. In realtà è l’obiettivo minimo, dovrebbe essere il punto di partenza da cui pianificare qualsiasi cosa, invece mi da l’idea che tutto sia lasciato un po’ al caso.
L’ambiente deve avere un valore monetario, non possiamo credere che sia giusto e libero, distruggerlo. I gas serra sono inquinanti, bruciano il pianeta, distruggono gli oceani e minacciano il nostro modo di vivere. La mia paura è che con la distruzione che vediamo ora, questa “nuova normalità” diventi, appunto, normale e l’autocompiacimento diventi la norma. In tal senso, l’attivismo dovrebbe essere mainstream e quella che viene chiamata soluzione drastica dovrebbe essere accettata come normale. So perfettamente che non può accadere velocemente, ma spero che prima o poi, ci incamminiamo per accettarlo.

Tu ha lavorato per la BBC, il New York Times, la CNN, il Guardian… vorrei chiederle quanto sia importante l’informazione documentaria e quale strada si potrebbe intraprendere per portarla all’attenzione della grande massa.
L’informazione è una cosa, la narrazione è un’altra. Per chiunque, e non mi riferisco naturalemente solo agli scienziati, sia importante impegnarsi in questioni complesse come quella ambientale, la narrazione diviene il veicolo principale per fare informazione.
Da sempre porto avanti una sifda: cercare di raccontare storie sui sistemi. Ebbene, devi sapere, che la maggior parte delle questioni ambientali coinvolge i sistemi. Ovvio stiamo parlando di sistemi complessi e tutti interconnessi. È sia impegnativo che importante raccontare queste storie, perchè può far capire di cosa stiamo parlando. Qualche volta mi è stato obiettato che è difficile comprendere tali sistemi ma credo che un giornalista debba necessariamente raccontarli, anche laddove non riesca neppure lui a comprenderli appieno in prima persona e collegare tutti i punti.
Attualmente ad esempio sto lavorando a diversi documentari di formato più lungo, basati su buone storie, capaci, credo, anche di mettere in luce i sistemi presenti in background.
Prima di salutarti e ringraziarti ancora per il tempo che ci hai dedicato, vorrei chiederti quali progetti hai in serbo per la seconda metà dell’anno e per quelli a venire.
Di alcuni lavori è difficile parlare… (sorride) ma un progetto in corso, divertente e positivo, riguarda dei coralli che ho scoperto in Danimarca. Stiamo mappando il fondale marino e sto lavorando con delle persone davvero simpatiche e dolci. Mi dà molta gioia ed è assolutamente divertente questa cooperazione. La piccola comunità di pescatori di Thorup Strand è così simpatica e i colleghi scientifici della Danish Technical University sono incredibili. A breve ne saprete di più. Ah tengo a dirti che ho anche in piedi delle collaborazioni su alcuni progetti italiani molto interessanti, ma di questo magari è ancora presto per parlarne, fors ela cosa più immediata che sta per uscire è il documentario sulla Lapponia.