Per il Social Media Day, istituito il 30 giugno 2010 dalla piattaforma multimediale digitale Mashable (fondata da Pete Cashmore nel 2005) allo scopo di celebrare il poderoso impatto di questi nuovi media su comunicazione e società, abbiamo qui con noi Federico Simonetti.

In occasione del Social Media Day, dissertiamo intorno a molti aspetti di questo universo mediatico con Federico Simonetti, esperto del settore
Classe 1984, da più di dieci anni è un professionista della comunicazione digitale per aziende di piccole, medie e grandi dimensioni e ha lavorato sia come libero professionista che attraverso agenzie di comunicazione. Laureato in Filosofia, ha conseguito un Dottorato di Ricerca in Scienze Filosofiche e collabora con il Centro Studi su Ragion di Stato e Democrazia dell’Università Federico II, per il quale scrive approfondimenti che hanno come tema il rapporto tra politica, società e nuove tecnologie.
Innanzitutto grazie di essere qui con noi. Ci può illustrare, per le persone non avvezze, senza dimestichezza o assiduità con la materia, le differenti categorie di Social media, nonché chiarirci le fondamentali, sostanziali differenze fra i Social network e le altre forme di Social media?
Grazie a voi dell’invito e dell’opportunità di cercare di portare un po’ di chiarezza in un ambito effettivamente confuso. Partiamo da una distinzione semplice: a rigore, qualsiasi piattaforma consenta agli utenti di aggiungere un proprio contenuto (dall’aggiungere un commento al mettere un “like” e oltre) può essere considerato come un Social Media. Per esempio, un giornale che permette di commentare gli articoli, o anche solo di lasciare un “like”, è già un social media. Perché si parli di Social Network è necessario che l’utente abbia la possibilità di creare una propria rete di contatti (includere alcuni, escluderne altri, etc.) con la quale condividere quei contenuti. Ma come siamo arrivati dagli uni agli altri? Partiamo con il dire che i cosiddetti “social media” sono nati prima dei “social network” e si sono sviluppati nella fase cosiddetta “2.0” di internet, quando la velocità di connessione e di caricamento sul web ha consentito agli utenti di condividere contenuti molto più complessi e pesanti dei semplici testi: immagini, video, intere applicazioni. C’è stato un tempo nel quale condividere un video significava possedere un’infrastruttura informatica estremamente sofisticata e costosa, con l’avvento delle connessioni a banda larga, anche un ragazzino con un pc e una videocamera diventava un produttore di contenuti sul web. Ma avere tanti contenuti “pesanti” significa anche doverli organizzare e poterli diffondere e condividere ed ecco che cominciano a nascere i primi servizi di “social media”: prima i blog, poi i servizi dove ospitare immagini e condividerle, infine i servizi dove condividere e commentare video. Ma una connessione così veloce apre la strada anche alla possibilità di condividere in tempo quasi reale i contenuti più leggeri e quindi, parallelamente, nascono i primi servizi nei quali si può interagire condividendo e commentando testi, link, immagini, etc. Ecco che si sviluppano i social network come contenitori nei quali è possibile avere un proprio spazio, una propria rete di contatti e così via. Oggi molti servizi di “social media” hanno tutti implementato in qualche modo logiche di social network: YouTube non è soltanto un contenitore di video, ma in qualche modo ti permette di entrare in contatto e connetterti con altri account, creare una tua rete; alcuni giornali online ti permettono di creare un network con altri utenti, creando così una rete interna, etc. Quindi oggi le due cose si sono un po’ confuse, per forza di cose. Tuttavia la distinzione originaria è rimasta sostanzialmente valida: un posto dove il tuo contenuto è accessorio è più un social media, un posto dove il tuo contenuto (o quello di altri utenti come te) è invece “protagonista” è un social network.
Di Social media ne esiste ormai una pletora quasi travolgente di forme. Può offrirci un quadro del caleidoscopico florilegio di possibilità e strategie da essi dispensate?
Nel tempo, come prevedibile, si sono sviluppati molti modi diversi di fare social media, alcuni più generalisti, altri più specialistici. Andando per grandi insiemi, senza essere troppo specifici, possiamo elencare:
- Piattaforme di social networking: sono le forme più comuni e diffuse di social media, come Facebook, Twitter, Instagram, LinkedIn e TikTok. I social network consentono agli utenti di creare profili personali, connettersi con amici, condividere contenuti come testi, foto e video, e interagire tramite messaggi, commenti e reaction (like, cuoricini, abbracci… ce n’è per tutti i gusti).
- Blogging/Microblogging: consentono agli utenti di condividere principalmente aggiornamenti di testo, anche se arricchiti con alti media (video, immagini, etc.) e in genere permettono interazioni come commenti e reaction. Generalmente, rappresentano degli ambienti più “aperti” rispetto ai Social network, perché i loro contenuti possono essere visualizzati anche da chi non ha un account sulla piattaforma o non è connesso con il loro autore.
- Piattaforme di condivisione di foto e video: YouTube è un esempio popolare di social media incentrato sulla condivisione di video, ma ce ne sono altri (molto meno noti) che si concentrano sulla condivisione di foto (come Flickr). L’aspetto di interazione tra gli utenti “normali” può essere maggiore o minore, ma sono luoghi digitali in cui gli utenti vanno, principalmente, per caricare o visualizzare video e foto, potendo anche interagire con altri utenti.
- Piattaforme di messaggistica istantanea: App come WhatsApp, Facebook Messenger e Telegram consentono agli utenti di inviare messaggi testuali, vocali e multimediali in tempo reale, sia individualmente che in gruppi. Ormai rappresentano una realtà per quasi tutti gli utenti di internet e spesso si dimentica che essi sono, a tutti gli effetti, dei media sociali, cioè che permettono di caricare contenuti e interagire tra utenti.
Ovviamente si tratta di una semplificazione, nella quale ho omesso molti usi particolari, ma credo sia piuttosto efficace per consentire di orientarsi anche agli utenti meno smaliziati e, soprattutto, a far capire che i social media sono un mondo molto complesso, un insieme di mezzi di comunicazione molto diversi, che da sempre va oltre i social network più popolari. Nel tempo, infatti, i social media si sono estesi sempre di più ad ambiti professionali della nostre vite: se prendiamo LinkedIn, ad esempio, ci troviamo di fronte a un servizio che ha trasformato la domanda e offerta di lavoro in un vero e proprio social network. Allo stesso tempo, molte applicazioni che oggi si usano nelle aziende (come Teams, Yammer o Slack) sono di fatto dei social network, o hanno funzioni social, attraverso le quali è possibile creare non solo degli ambienti di lavoro, ma anche delle microcomunità all’interno dei posti di lavoro.

Avventurarsi e districarsi nell’articolato mondo dei Social Media
In cosa consiste il suo lavoro? Come si può descrivere nel modo più debito e puntuale possibile la sua figura professionale e delucidarne l’importanza?
Dato che i social media sono un mondo piuttosto complesso, la figura del social media manager (o specialist o strategist…) è di per sé una figura ibrida: un mio carissimo amico è noto col nome di “socialmediacoso”, proprio ironizzando sul fatto che è difficile definire che cosa è, ma è tutto sommato chiaro definire su cosa lavora. Uno specialista dei social media è innanzitutto in grado di capire la comunicazione, di creare contenuti e di stimolare la loro circolazione sulle varie piattaforme e, di conseguenza, delle interazioni. La base di tutto questo è (o dovrebbe essere) uno studio dell’azienda, dell’istituzione, del marchio o della personalità per cui si sta lavorando: i suoi valori, la sua offerta, i suoi punti di forza o debolezza e così via. Ma anche – e forse ancor di più – del tipo di clienti a cui si vuole comunicare, del messaggio che si vuole veicolare: senza sapere a nome di chi stiamo parlando e a chi ci stiamo rivolgendo, è impossibile capire cosa si vuole (o si può) dire ed è, insomma, impossibile creare dei contenuti che siano insieme utili ed efficaci tanto per chi li crea che per chi li riceve. Per il resto… beh, è un mestiere che mette insieme tanta creatività (si devono abbinare testi a immagini, a video, a gif, etc.), tanta competenza tecnica (piattaforme diverse hanno linguaggi diversi e formati diversi), tanta capacità di analisi (lo studio dei dati è fondamentale), tanta pazienza (moderare i commenti può essere molto stressante) e anche – forse soprattutto – tanta empatia. In più, in un mondo dove tutti comunicano incessantemente, è importante anche capire quando è meglio stare zitti: a volte, far capire a un cliente o a un datore di lavoro che è meglio non postare su un argomento o non farlo a sproposito è la missione più difficile.
Uno degli utilizzi più debiti ed edificanti dei Social media è sicuramente quello di natura etica, volto a dar voce e perorare e propalare cause, a sensibilizzare sulle più disparate tematiche. Cosa consiglia a chi vuol farne un simile uso?
Fare un uso politico o civile dei social media è onestamente una delle sfide più complesse, un po’ per come i social si sono evoluti negli ultimi anni, un po’ per come questi hanno contribuito a far evolvere la società, di conseguenza. Il mio consiglio è quello di non partire subito aprendosi a un livello di comunicazione troppo ampio, per evitare di venire schiacciati da altri giganti della comunicazione (che magari possono permettersi anche di spendere dei soldi in advertising), ma partire da community più piccole, più gestibili, con le quali coltivare e intrattenere un rapporto continuo e interessato, per poi crescere pian piano, un po’ per volta. Inoltre, occorre sempre farsi le domande di cui al punto precedente: quali sono i miei valori? A chi voglio comunicarli? Perché qualcuno dovrebbe seguirmi? Come fa questo qualcuno a trovarmi? Sembrano domande banali, ma non lo sono affatto, anche per un progetto che potenzialmente si rivolge “a tutti”: purtroppo nessun progetto si rivolge mai veramente a chiunque, soprattutto all’inizio, e capirlo è il primo modo per poter essere più efficaci con poche risorse a disposizione.

Tanti Social Meda e tanti usi possibili: dall’economia all’etica all’arte…
Quanto possono risultare utili i Social media ad artisti e artiste emergenti, sia per potersi esprimere che allo scopo di pubblicizzare e divulgare il proprio lavoro?
Come strumento espressivo credo che ancora oggi i social media rappresentino un campo nel quale è possibile fare tantissimo, anche partendo con risorse estremamente limitate: avere un posto dove caricare i propri scatti fotografici (come Flickr o Instagram), i propri video (come YouTube) o i propri videogame autoprodotti (come itch.io) o ancora i propri brani (come Soundcloud) è una cosa preziosissima che fino a una decina di anni fa era impensabile. Tuttavia, pensare che questo, da solo, sia un modo efficace per poter ottenere successo o “far girare la voce” temo cominci a essere un po’ utopistico: se c’è stata un’epoca nella quale i social media (e, in particolare, i social network) sono stati un luogo per farsi pubblicità a buon mercato, credo sia finita nella seconda metà del decennio scorso. Questo in parte perché sono cambiati i social – schiacciati da logiche pubblicitarie e di profitto – un po’ perché siamo cambiati noi – che queste cose non le cerchiamo più lì dentro. Il mio consiglio è di usare queste piattaforme come dei contenitori per avere una vetrina a cui rimandare le persone, ma cercare anche altre strade per ottenere visibilità e attenzione. In particolare nel mondo fisico e nell’incontro reale con le persone: è più difficile, certo, ma ho l’impressione che sia oggi molto più efficace. Per paradosso, soprattutto dopo il lockdown, il contatto umano è diventato una merce più rara.

Può dirci quella che lei reputa la caratteristica più valente e fruttifera dei Social media nonché la loro preminente, principale e più efficace funzione?
A mio parere la grande caratteristica dei social media, che poi è stato il motivo del grande successo dei social network nella loro epoca d’oro (diciamo dal 2008 al 2015), è stata quella di permettere di rimanere in contatto con le persone: attenzione, non tanto di conoscere persone nuove con le quali stringere nuovi legami, quanto piuttosto quella di consentire di mantenere contatti esistenti. Fate un conto dei vostri contatti sui vari social (Whatsapp e Telegram inclusi) e provate a contare quante sono le persone che continuate a sentire: quante di queste le avete conosciute offline? Quante invece le avete incontrate online? Questa caratteristica, purtroppo, con il tempo si è andata indebolendo sotto varie spinte, ma soprattutto perché la contemporaneità ha favorito dei legami più fluidi, più instabili. Non è un bene né un male, ma è un fatto.
Un’altra grande caratteristica, però, è la facilità di accesso all’informazione, così come la grande facilità di contribuire a quella informazione: i social media hanno concesso a chiunque la possibilità di produrre sapere (pensiamo a Wikipedia, che è a pieno titolo un social media!) o anche solo di contribuire alla circolazione di informazioni (pensiamo alle primavere arabe, o a quando accaduto solo pochi mesi fa in Iran). Purtroppo anche questo ha avuto dei lati negativi, di cui sentiamo tutti il peso: fake news, scetticismo dilagante, disinformazione.
La domanda che dobbiamo farci è: considerato che i social media sono una realtà, in che modo possiamo, come società, crearci degli anticorpi contro tutto questo? La risposta io non ce l’ho, ma è una delle grandi sfide collettive che dobbiamo affrontare tutti.

Non è tutto oro ciò che luccica: come fare debito uso di un potente e controverso strumento
Vorrei fare una considerazione che si tradurrà in domanda: nel suo romanzo breve The missing man, del 1971, la scrittrice di Fantascienza Katherine MacLean, con la sua immaginazione sagace, riesce prefigurare alcuni cambiamenti socio/antropologici e tecnologici: tra le varie cose, ci mostra passeggeri della metropolitana trasognati e assorti nella contemplazione di uno schermo privato. Quella dello “schermo privato” appare come un’immagine davvero calzante, nel bene e nel male, della diversità dei social media da quelli tradizionali, e del cambiamento da essi apportato nel modo di apprendere, usufruire e condividere informazioni e contenuti da parte degli utenti, salvo la riduzione a mero isolamento e passività.
Partendo da tale immagine, quale ritiene sia l’approccio più consono, tra opportunità e responsabilità, a questa forma quasi immediata di gestione dei contenuti?
Devo ammettere che, da amante della fantascienza, gli scenari distopici sono quelli che mi vengono in mente ogni volta che prendo la metro e vedo persone di tutte le età incollate ai propri cellulari, o che non parlano tra loro. Va detto, però, che prima dei cellulari, ricordo distintamente che stavamo tutti incollati a libri e giornali e comunque si parlava poco. Di certo i media digitali – social o no – ci hanno calati in un universo immersivo, fatto di stimoli costanti e incessanti, sviluppando di fatto in tutti la paura di rimanere senza connessione a ciò che di importante succede nelle reti social: commenti, reaction, discussioni, meme… Provate a proporre a un adolescente di andare in un luogo dove il cellulare non prende per più di sei ore e vi troverete di fronte a qualcosa di simile a un attacco di ansia. Ecco, al di là del facile moralismo – che non mi appartiene – dovremmo riflettere su cosa vuol dire tutto questo: è colpa dei social media? In parte, forse. Ma ritengo sia più che altro figlio della nostra incapacità di relazionarci, in generale, con la tecnologia come strumento, stabilendo un rapporto sano con essa. E non parlo solo di chi è giovane adesso: parlo anche della mia generazione, che ha dovuto stabilire un rapporto con i dispositivi elettronici praticamente senza un’educazione, senza una “posologia” adeguata. I miei sono cresciuti in un universo simbolico in cui la cosa più tecnologica era la calcolatrice, non avevano idea di come educarmi rispetto ai videogiochi, al PC e poi allo smartphone. Noi però ci siamo passati, possiamo avere un ruolo in tutto questo: l’importante è che smettiamo di pensare che queste cose si imparino da sole o vengano da sé. Come è necessario insegnare a un bambino a maneggiare un coltello o a infilare i vestiti e lavarsi i denti, è necessario stabilire delle regole – anche solo date dall’esempio positivo – sull’utilizzo delle tecnologie digitali.

Nietzsche scriveva che prima di spiccare un balzo occorre fare dei passi indietro: cito ancora la Sci-fi: nel racconto del 1950 Oddy and Id, di Alfred Bester, un giovane dotato di eccezionale talento e fortuna, e animato consciamente dalle più provvide e solerti intenzioni, raggiunge risultati sociali e politici inauditi, per poi rivelarsi soggiacente e guidato dal proprio Inconscio (Id), bramoso di potere e affermazione; nel classico cinematografico del 1956 Forbidden Planet, i Mostri dell’Id si manifestano e materializzano attraverso una formidabile tecnologia.
L’allegoria è chiara: ogni innovazione, costituendo una novità, non può farci esimere dall’affrontare insidiosi impulsi che covano reconditi, rimossi, e si manifestano, in modo solo all’apparenza paradossale, quando possono trincerarsi dietro a una maschera, in questo caso quella tecnologica. Dover assestare nuovi equilibri destabilizza, ed eccoci allora a confrontarci con mostri vecchi, annosi, o nuovi, dagli haters alle fake news, fino al rischio di ansia, dipendenza o burnout. Come si può fronteggiare al meglio questo aspetto?
C’è un filosofo a me molto caro e scomparso da poco, Bernard Stiegler, che lungo tutta la sua carriera ha cercato di affermare il concetto che la tecnologia per gli uomini sia un pharmakon, cioè insieme sia un potenziale veleno che un potenziale rimedio: credo molto a questa prospettiva. Del resto, anche il paracetamolo o la caffeina, se dosati male, possono ucciderci. Il punto è chi può decidere della posologia corretta: per inclinazione morale, tendo a ritenere che certi cambiamenti di rotta possano avvenire solo a partire da buone pratiche sociali che si fanno via via sempre più dominanti e diventano patrimonio condiviso. Per arrivarci, purtroppo, talvolta si passa attraverso eccessi che, spesso, hanno effetti disastrosi. Uno dei problemi più gravi dei social media è che i mostri, a cui fai riferimento nel tuo esempio, sono sì un’espressione delle contraddizioni dell’animo umano, ma sono stati spesso cavalcati grandemente dai social media, in senso commerciale: l’egoismo, l’egocentrismo, la vanagloria, il culto dell’ego… senza voler essere catastrofisti o troppo radicali, mi permetto di dire che sono fenomeni che i giganti dell’high tech hanno nella migliore delle ipotesi ignorato, nella peggiore favorito con lo scopo era far crescere i propri numeri: più audience voleva dire più richiamo per nuovi utenti e più richiamo per nuovi utenti voleva dire più investimenti pubblicitari. Non è una colpa in sé voler far crescere un’azienda o voler aumentare i profitti, ma è un problema se questo vuol dire contribuire a inquinare il dibattito pubblico e renderlo sempre più tossico. Se vogliamo riprendere la metafora del pharmakon è come se a un certo punto un’azienda farmaceutica cominciasse a vendere un farmaco per combattere il dolore sostenendo che è innocuo e suggerendo che venga usato anche per dolori molto piccoli senza però comunicare a nessuno che causa una forte dipendenza: di fatto, finiamo per accorgerci che siamo stati in qualche modo ingannati solo dopo che siamo diventati tutti dipendenti da quel farmaco, per giunta in maniera – almeno in parte – intenzionale, a causa di una posologia scorretta. Chiariamoci, non sto suggerendo di abbandonare i social definitivamente o suggerendo che tutti i social siano fatti così, ma che occorrerà tempo, per tutti noi, per fare i conti con l’effetto devastante che questi hanno avuto sul nostro modo di comunicare, per farcene una ragione e elaborare un rapporto equilibrato con essi. E, considerando che ormai la loro età d’oro è giunta al tramonto, ho qualche fiducia che possiamo riuscire prima o poi a disintossicarci.