Una delle menti più creative del panorama cinematografico e non solo del nostro Paese. Maurizio Nichetti è un mimo che racconta, immagina, sogna. E’ una persona di cultura con le idee chiare di chi ha navigato mari e oceani per portarci il suo cinema avveniristico e avanguardistico. In questa prima parte dell’intervista scopriamo le radici dell’Ingegner Colombo e tanto altro.

Oltre 50 annia di carriera per un Artista a 360° che ha saputo fare del cinema un veicolo assoluto di fantasia. Questo è Maurizio Nichetti
Caro Maestro, con oòtre 70 anni di vita alle spalle e 50 d’Arte, se dovesse fare un dipinto dell’Italia che ha attraversato, oggi cosa ne uscirebbe fuori?
Ce ne sarebbero di cose da dire anche se la prima cosa che mi viene in mente è il quadro di Pablo Picasso, Les Demoiselles d’Avignon. Un dipinto del 1907. Non so dirle il perché. E’ un quadro che mi affascina, non del tutto comprensibile, un po’ esibizionista e un po’ mostruoso, racconta abbastanza bene anche i nostri tempi, una società che si mette in posa per un selfie, ma che ha perso la voglia di sorridere, troppo preoccupata di like invisibili, disposta anche a mascherarsi pur di stupire. In un mercato continuo della propria immagine.
Il mondo è governato più dall’apparenza che dalla realtà ed è meglio far mostra di sapere qualcosa, piuttosto che saperlo”. Queste sono le parole di Daniel Webster, che sembrano calzare perfettamente con quello che ha appena suggerito lei. Sembrano parole che molto bene si adattano al nostro contemporaneo, se non fosse che il politico statunitense è morto nell’ottobre del 1852. Possiamo allora dire che forse si aggiornano e si sviluppano le nuove tecnologie, ma la “sete” d’apparenza umana, non muta con il cambiare dei secoli?
Era il 1852 ed era un politico… Forse nel campo istituzionale è sempre stato importante apparire efficienti piuttosto che esserlo davvero. O forse no?

Quest’anno, il suo film d’esordio, Ratataplan, compie quarantaquattro anni Che ricordo ha di quella pellicola e secondo lei quanto è distante quel suo concetto di cinema da quello che oggi viene proposto nelle sale?
Nel 2018, al festival di Pune in India, dove ero in giuria, l’ho proiettato davanti ad una sala piena di ragazzi indiani di oggi. Hanno riso come era accaduto oltre quarant’anni fa in Italia e in tutti i paesi in cui era uscito, dalla Cina al Sudamerica, dall’Europa all’Australia. Era il mio primo film e mi era sembrato logico farlo come sapevo, io che avevo studiato mimo al Piccolo Teatro e scrivevo cartoni animati per lo studio Bozzetto. Da questi precedenti, abbastanza inconsueti, ne era uscito una pellicola diversa dai tanti neorealismi presenti nel cinema italiano. Non ne ero a conoscenza, ma stavo già raccontando la realtà con fantasia.
Quella stessa realtà che oggi si veicola invece senza l’utilizzo di alcuna forma fantastica, almeno nelle produzioni che mirano ad un ampio pubblico. E’ forse questa la maggiore distanza dal concetto di cinema che ha portato avanti lei?
Indubbiamente la realtà, oggi, ha occupato molti spazi di comunicazione audiovisiva. Data la facilità tecnologica che abbiamo nel riprendere il vero, tutti lo possono fare o possono illudersi di saperlo fare. Il fantastico si è sviluppato altrove. Nei lavori in cui riesce difficile riconoscere una scenografia reale da una virtuale… e lo stesso vale anche per i personaggi. Io rappresentavo storie in cui la fantasia non doveva essere ricostruita al computer, bastava un bicchier d’acqua che attraversava la città con poteri speciali.
Uno dei temi dominanti di Ratataplan era l’esigenza di un riscatto sociale, il cercare di dar senso ad una vita governata da disavventure. A quarant’anni di distanza la nostra società, per motivi politici o economici, ha creato molti Ingegneri Colombo. Anche in questo senso pensa di essere stato tristemente lungimirante o la sua intuizione era solamente un mood comico necessario alla narrazione?
Il tema della disoccupazione giovanile appartiene a tutte le generazioni da quelle precedenti alla mia (Il posto di Ermanno Olmi) a quelle di oggi che si riconoscono nelle disavventure di Checco Zalone, sempre alla ricerca di un lavoro. Credo che la difficoltà di trovare un posto nella vita sia comune a tutte le epoche. Certo che un film muto, pieno di gags visive surreali come l’episodio del bicchier d’acqua o quello del Robot finale (quasi un’anticipazione di Avatar venuto molto dopo) parlava della prima disoccupazione intellettuale che la nostra società stava conoscendo. L’Ingegner Colombo era un laureato che per vivere faceva il cameriere sulla montagnetta di San Siro. Questo era un tema particolarmente serio, metteva l’accento su un numero di laureati sempre maggiore che alla fine degli anni ’70 non avevano più garantito un posto all’altezza del loro titolo di studio. Per un film comico, che anche un bambino può seguire, era un contenuto valido ancora oggi e che ritrovo sempre in chi mi ferma per ricordarmi la scena dell’albero: il fallimentare test iniziale alla base di tanti concorsi oceanici che, nel tempo, si sono solo moltiplicati. Era, nel 1979, il risveglio traumatico di una generazione che dieci anni prima aveva creduto di poter cambiare il mondo, di annullare il consumismo, di salvare la natura… e una nuova generazione ci sta provando ancora oggi!

C’è una particolarità del film che mi ha incuriosito molto. A circa metà pellicola, l’Ingegnere Colombo, da lei impersonato, si improvvisa violinista per la sconclusionata cooperativa teatrale del suo condominio. Per creare tale scena recupera un suo cortometraggio girato l’anno precedente dal titolo Magic Show. Come le è venuto in mente di utilizzare il medesimo storyboard, limitandosi solamente a mutare l’ambientazione, da estate ad inverno?
Semplicemente perché senza Magic Show non ci sarebbe mai stato Ratataplan. Avevo girato il mediometraggio Magic Show (20 minuti) l’anno prima ed è stato il lavoro che ho mostrato a Franco Cristaldi per convincerlo a farmi fare un lungometraggio. Mi ha chiesto: “Il corto mi piace, ma come farà a farlo diventare un lungometraggio?” Ho risposto d’istinto: “Girerò un prima e un dopo…” (le parole prequel e sequel non erano ancora entrate nel nostro vocabolario), poi mi sono terrorizzato. Cristaldi voleva farmi girare in inverno mentre Magic Show era stato girato in estate: “E lei lo rigiri in inverno”, mi disse laconico, facendomi capire che, se avessi aspettato l’estate, forse non avrebbe più avuto i soldi a disposizione per questo esordio “scommessa”.
Ratataplan è l’unico film della storia del cinema che è stato girato per 20 minuti due volte, una in estate e una in inverno, con gli stessi attori, la stessa location, lo stesso regista. Nel DVD uscito in Italia si possono confrontare le due versioni e, va ricordato, che sono state fatte in un’epoca in cui non era facile visionare il materiale, rigorosamente ripreso, stampato e proiettato in pellicola. Le due sequenze messe a confronto, viaggiano parallele per 15 minuti, ed è stato tutto frutto di una memoria visiva e di uno storyboard meticoloso. Pochissime gags sono state cambiate.

Visto che lo ha citato vorrei aprire una piccola parentesi proprio su Franco Cristaldi. E’ stato uno dei pochissimi produttori italiani a combattere quel cinema di stampo seriale, lasciando ampia libertà espressiva a tutti i registi con i quali ha lavorato: penso a Fellini, Loy, Germi, Monicelli, lei ovviamente e tanti altri. Crede che se si fosse trovato a lavorare oggi, Cristaldi avrebbe avuto la stessa possibilità di scommettere su film per certi versi completamente rivoluzionari?
Onestamente credo che se Cristaldi fosse in attività oggi, lavorerebbe per Netflix. Era un produttore vero, si sarebbe accorto subito delle potenzialità imprenditoriali di una serie televisiva (ai suoi tempi aveva ereditato e portato a termine, per la televisione, il Marco Polo di Giuliano Montaldo).
Eppure nel 1979 diceva che il cinema, per lui, rappresentava una fabbrica di prototipi con tutto l’entusiasmo e il rischio che un prototipo richiede. Il cinema di oggi rifugge il rischio: tende a produrre per una committenza televisiva che vuole essere garantita su un risultato finale da prime time. Nessuno può più permettersi il lusso di lavorare sul prototipo, sulla creatività, sulla scommessa.
Già da questa sua prima pellicola emerge l’importanza assoluta per il concetto di creatività. Creativo nell’arte come nella vita: maturità scientifica nel ‘67 in giacca e cravatta e facoltà di architettura in eskimo. Fa parte del Movimento Studentesco, ma non occupa l’università. Dichiarerà: “Aveva altro da fare”. Cosa, se possiamo domandarglielo?
Attività che dovevo tenere nascoste alla facoltà di Architettura per non venire scomunicato: lavoravo in teatro come mimo e poi come sceneggiatore di cartoni animati e pubblicità. Tutti lavori politicamente scorretti per una generazione che nel ’68 considerava l’impegno politico come prioritario. Io sono sempre stato dell’idea che tutto rientra in un discorso politico. Dal cominciare, prima di tutto, a fare bene il proprio mestiere. Se poi ci sono dei valori acquisiti o dei contenuti che si vogliono comunicare lo si può fare anche con una gag, non occorre prendere sempre la parola in un’assemblea.

Tutta la sua carriera parte da un corso di Mimo, due volte alla settimana. Comunicare senza la necessità della parola diventa il suo diktat. Perché ha scelto un percorso così controcorrente, in un’Italia di parolieri e parolai?
Sono stato affascinato da una riflessione che poi ho sempre utilizzato anche con i miei studenti alla prima lezione di mimo. Il mimo non è un muto!
Una persona muta non può parlare e, a volte, per farsi capire deve gesticolare molto. Un mimo, invece, non vuole parlare perché riesce a farsi capire anche rimanendo immobile senza dover aggiungere alcuna parola. La mia lotta contro le parole è cominciata subito. Non solo con Ratataplan, mio primo film senza dialoghi, ma anche con Ho fatto Splash, in cui dicevo solo tre parole (quelle del titolo) e con Domani si balla!, mio terzo film, di impianto prettamente fantastico. Piccola e povera pellicola dove si raccontava di un popolo extraterrestre più evoluto di noi che ci metteva in guardia dal pericolo di usare troppe parole…
Purtroppo il film non fu ascoltato e le parole hanno invaso le nostre case con migliaia di ore televisive dedicate solo alla sistematica manipolazione dell’opinione pubblica.
Qui credo si potrebbe aprire un ampio dibattito, ma mi limito ad una sola domanda: crede più che la televisione e per certi versi il cinema, manipolino le persone, promuovendo format spesso di basso impatto culturale, o questi programmi siano invece figli legittimi di una società notevolmente meno acculturata di quella di trenta o quaranta anni fa?
E’ nato prima l’uovo o la gallina? Sono domande profonde. Alcuni film nascevano come fotografia di una generazione esistente (gli yuppies degli anni ’80) poi sono diventati modelli di comportamento per le generazioni successive (trent’anni di cinepanettoni) la televisione è nata per tenere in casa il numero massimo di spettatori, abbassando via via l’offerta culturale, o relegandola a orari e settori molto circoscritti. Dire se questo abbia inciso sui comportamenti, sui gusti, sulle semplificazioni della società moderna è azzardato. Certo la gente si sente autorizzata, dai tanti reality trasmessi negli ultimi vent’anni, ad essere eccessiva, nel vestire, nel comportarsi, nell’esternarte i propri sentimenti positivi o negativi. Tutti sono più aggressivi, meno rispettosi di chi hanno davanti, anche se non c’è nessun Maurizio Costanzo che li aizza in nome dell’Audience”
I selfie, gli youtubers, gli influencer hanno fatto il resto. Vivere e crescere, sposarsi o divorziarsi, davanti a un telefonino acceso ti può dare visibilità, fama temporanea, ti può illudere di partecipare ad un grande spettacolo collettivo, sempre con un ruolo da protagonista. Ma i grandi film del passato erano fatti anche da grandi caratteristi, da geniali comprimari.Un a società di fenomeni che si autoriprendono, felici e spensierati, può anche annoiare a morte.

Dal mimo all’universo di Bruno Bozzetto. 8 anni di gag, disegni, sceneggiature. Ci può raccontare quel periodo e cosa ha significato per lei, personalmente e artisticamente il rapporto con Bozzetto?
E’ stata la mia personale scuola di cinema. Allo studio Bozzetto si lavorava a prodotti che dovevano essere adatti ad un pubblico internazionale. Il “Signor Rossi” è diventato molto popolare in Germania, in Canada, proprio perchè, pur rappresentando l’italiano medio, non si avvaleva mai di giochi di parole o di battute “intraducibili” Venendo dal mondo della pantomima, per me era facile immaginare situazioni e gag visive. Le battute non sono mai state protagoniste nei lavori dello Studio Bozzetto. Sono stati anni di formazione, amicizia e grande divertimento. Quel divertimento che puoi conoscere solo lavorando gomito a gomito con una decina di persone, accomunate da uno spirito e da un umorismo un po’ pazzo, fuori dalla realtà. Oggi, le nuove tecnologie, anche nel campo dell’animazione, hanno reso possibili grandi serialità, ma necessitano di centinaia di collaboratori sparsi ovunque che, chini sui loro computer, si specializzano nell’animare liquidi o peli di Panda con effetti assolutamente realistici. Puoi seguire la regia di una serie animata, senza mai avere avuto un contatto diretto con chi disegna, solo attraverso comunicazioni, anche intercontinentali, che viaggiano in Rete. Il secolo scorso, si lavorava in modo più artigianale, umano, alla fine in modo più divertente.
In quegli anni sono nate amicizie che sopravvivono ancora oggi. E’ più difficile affezionarsi a centinaia di animatori coreani anonimi, utilizzati dall’altra parte del mondo, con logiche e orari molto lontani dai nostri.
Questo e tanto altro è il mondo di Maurizio Nichetti. La prossima settimana riprenderemo il nostro viaggio che da l’Altra Domenica di Arbore ci porterà alla nascente televisione di Berlusconi.
2 commenti su “Da Ratataplan a Bozzetto. In punta di piedi entriamo nel mondo di Maurizio Nichetti”