Secondo una tradizione oggi, Solstizio d’Estate, il dio Śiva principiò la trasmissione della disciplina dello Yoga ai suoi devoti discepoli.
Per la Giornata Internazionale dello Yoga, istituita dall’ONU nel 2014 sotto la spinta del governo indiano e col supporto di più di 170 paesi, siamo qui col Professor Bruno Lo Turco, docente di Religioni e filosofie dell’India presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza”.

In occasione della Giornata Internazionale dello Yoga, siamo qui a disquisire su questa disciplina, Patrimonio dell’Umanità, col Professor Bruno Lo Turco, esperto di Religioni e filosofie dell’India
Ha conseguito il dottorato con una tesi sul Moksopaya (Via alla liberazione), importantissimo trattato filosofico sanscrito in versi del 900 d.C., testo del quale, fra gli altri, continua ancora oggi ad occuparsi. Ha redatto voci e si è dedicato a traduzioni, editing e ricerca iconografica per la sezione Scienza indiana della Storia della scienza edita dall’Istituto dell’Enciclopedia italiana. E’ stato direttore editoriale della Rivista di Studi Sudasiatici, di cui è tra i fondatori. Oltre che di insegnamento, ricerca e traduzioni, si occupa altresì della storia degli Studi orientali in Italia, di oralità e scrittura nell’India classica e medievale e del suttee, nonché della correlazione fra modernità e pensiero filosofico-religioso indiano.
Innanzitutto grazie di essere qui con noi. Come si potrebbe definire, nel modo più puntuale, debito e circostanziato possibile in questa sede, la pratica e disciplina dello Yoga? Vittima spesso di una diffusa percezione un po’ superficiale, lacunosa, abborracciata e fumosa, di cosa si tratta esattamente?
Grazie a voi. Nella tradizione indiana Yoga è, in sostanza, qualsiasi prassi contemplativa. Questa parola può essere appunto tradotta come “prassi”, “metodo” e di per sé non fa riferimento a una corrente o scuola determinata. La parte teorica è invece detta Sāṃkhya, ossia “enumerazione”, cioè elenco dei principi dottrinali. Secondo un’altra accezione, per Yoga si può intendere lo Yogadarśana, il Sistema dello Yoga, che è una scuola specifica basata su un testo radice: lo Yogasūtra, “Raccolta di aforismi sullo Yoga”, attribuito a un autore di nome Patañjali, vissuto forse nel V secolo d.C., del quale non si sa nulla di là dal mito che lo assimila a una divinità. Di solito a questa scuola viene accostato il Sāṃkhyadarśana, una scuola (da non confondersi col Sāṃkhya inteso in senso generico) che si suppone rappresenti la controparte teorica dello Yogadarśana. In realtà le due scuole, per come le conosciamo, non sono del tutto in armonia. Ciò detto, lo Yogasūtra si presenta già come un’opera alquanto eclettica, se non proprio come un centone, giacché raccoglie dottrine provenienti sia da varie correnti induiste sia dal Buddhismo.
Come vi sono molte correnti induiste, così figurano svariate ed eterogenee forme di Yoga. Qual è il minimo comune denominatore che le sottende tutte e lo scopo precipuo, fondamentale, della pratica?
Il minimo comune denominatore, nonché scopo centrale della pratica, è lo sforzo teso alla liberazione dal ciclo delle rinascite, ossia dalla realtà ordinaria, convenzionale. In realtà a questo scopo tendono idealmente pressoché tutte le scuole filosofiche indiane. Ma per alcune scuole, come quella dell’atomismo (Vaiśeṣika) o quella della logica (Nyāya), in cui la prassi contemplativa è meno rilevante, la meta della liberazione ha un valore quasi solo formale.

Agli albori dello Yoga…
Quali sono le origini dello Yoga, è possibile individuarle?
Riferimenti a pratiche yogiche si trovano già nello strato più antico della tradizione orale indiana, giunta come tale fino a noi, quella vedica. Il Ṛgveda (10.136) contiene infatti un inno dedicato ai Keśin, gli asceti nudi erranti dai lunghi capelli. Essi sono descritti quali soggetti in grado di cavalcare il vento, amici sia degli elementi naturali sia degli animali feroci. L’inno li collega inoltre al dio Rudra, una divinità terrifica dei luoghi deserti, che la tradizione successiva trasformerà in Śiva, che è tra l’altro il dio degli yogin per eccellenza. Questo inno ṛgvedico è la prima apparizione sulla scena, per così dire, dello Yoga. La comunità dei Keśin è rappresentata come esterna a quella degli ārya vedici, anche se la cultura vedica progressivamente assorbirà quella yogica. Non sappiamo quale fosse l’origine dei Keśin, se parlassero una lingua indoeuropea oppure no, se appartenessero a una cultura autoctona oppure no.
Le sottopongo una mia curiosità: è possibile che lo Yoga abbia remote, ancestrali radici sciamaniche? Mi sovvengono alla mente due manifestazioni dell’antichissima Divinità Cornuta, di origine sciamanica e natura iniziatica, il cui culto era diffuso in tutto il continente indoeuropeo: la deità forse raffigurata su di un sigillo ritrovato nel sito del Mohenjo-daro nella Valle dell’Indo, ipotetico prototipo del dio indù Paśupati, “Signore degli animali”, e Cernunnos, divinità della fecondità di area soprattutto celtica (alla base di figure come Herne il Cacciatore e Robin Hood); entrambe sono contraddistinte da prorompenti corna sul capo e una postura accovacciata che parrebbe meditativa, yogica…
Gli studiosi non hanno alcuna certezza che tra la divinità rappresentata su un sigillo di Mohenjo-daro e Śiva Paśupati esista un collegamento. Si tratta di una possibilità, per ora non suffragata da ulteriori prove. È certamente possibile che lo Yoga abbia origine sciamaniche, ma questa rimane una mera supposizione, giacché non siamo in grado di ricostruire una storia culturale dell’India antecedente alla tradizione vedica (cioè al 1500 a.C.), la quale ci mostra la figura dello yogin già formata. Della cultura vallinda che ha preceduto quella vedica (di cui il Veda non mostra, a ogni modo, alcuna consapevolezza) non sappiamo abbastanza: il sistema di scrittura in uso a Mohenjo-daro non è stato decifrato, a dispetto di quanto a volte si sostiene. Anche perché forse non è esattamente un sistema di scrittura, ma un sistema standardizzato di basilari indicazioni amministrative su provenienza delle merci, loro destinazione, valore ecc.

Il labile confine tra benessere e ricerca spirituale, nello Yoga prisma dagli innumerevoli volti
Come e quando è avvenuta la diffusione dello Yoga in Occidente, con quali presupposti e modalità?
La storia della diffusione dello Yoga in occidente, iniziata alla fine del XIX secolo, è estremamente complessa. Quello che si può notare in questa sede è che lo Yoga sin da subito in Occidente si è ibridato con il naturismo (che fu fondato in India, ma da europei, sempre alla fine del XIX secolo), la cultura fisica, le discipline acrobatiche, le religioni eclettiche quali il movimento teosofico ecc. In realtà già un testo antico come lo Yogasūtra, per esempio, si presenta evidentemente come un ibrido tra varie tendenze e scuole. Quando i maestri indiani novecenteschi hanno fondato nuove, oggi diffusissime, scuole di Yoga, non lo hanno fatto solo sulla base della tradizione indiana, giacché, consapevolmente o meno, erano già influenzati dalla trasformazione occidentale dello Yoga. Si potrebbe pensare che queste circostanze storiche delegittimino la pratica contemporanea dello Yoga. Non è così: nel corso della sua storia, per come ci appare, lo Yoga si è costantemente evoluto, adattandosi alle circostanze storiche, sociali ed economiche.
Quando gli inglesi ammirarono i templi del sito di Khajuraho e le loro raffigurazioni erotiche non potettero cogliere la valenza spirituale di queste ultime e si precipitarono ad apostrofarle come oscene, salaci, pruriginose. Allo stesso modo la percezione occidentale continua troppo spesso a declinare superficialmente cose come il Kāma Sūtra o il Tantra e a deferirle alla sola sfera sensuale e sessuale. Non manca di certo chi si approccia con sollecitudine e competenza ad una cultura altra, ma la prosaica visione dello Yoga quale esercizio ginnico e mentale volto esclusivamente al benessere corporeo e psicofisico sembra sia ancora molto diffusa. Ritiene che sia effettivamente così?
La rappresentazione dello Yoga quale volto al benessere psicofisico non è un’invenzione moderna. Soprattutto lo Yoga tantrico (talvolta detto Haṭhayoga) già si proponeva come elisir di lunga vita. Anzi, secondo certe scuole lo Yoga doveva condurre non tanto alla liberazione dal ciclo delle rinascite quanto all’incorruttibilità del corpo fisico, che può essere presa sia alla lettera sia come metafora della salute psicofisica. Il riferimento a Khajuraho è di particolare interesse, poiché i suoi templi lasciano intendere l’origine dello Yoga delle posture o āsana; in origine queste erano posizioni dell’atto sessuale eseguite nel contesto di un rito orgiastico. Questa forma di Yoga, tantrico appunto, era ben distinta dallo Yoga ascetico, rappresentato, per esempio, dallo Yogasūtra o descritto nel Canone del Buddhismo antico (ove è chiamato, tra l’altro, Samādhi). Ma le due forme si sono fuse tra loro molto presto. Un testo del XV secolo come la Haṭhayogapradīpikā mostra il processo di ibridazione tra i due tipi di Yoga già compiuto.

Orizzonti d’Immortalità…
Vorrei azzardare una domanda a carattere mitologico dopo alcune considerazioni: in ambito cattolico, alcuni hanno assimilato lo Yoga ad una sorta di stregoneria, atto non dissimile dal prendere Kalì, terrifica incarnazione in battaglia di una dea capitale per l’Induismo come Durga, e collocarla, per via delle sue sembianze torve e truci, in un trattato di demonologia, come fece il famoso Collin De Plancy. Tuttavia, al netto di una certa corriva arroganza occidentale, sembrerebbe affacciarsi, ad esempio, nel sopracitato Haṭha Yoga, l’aspetto relativo alla manipolazione di energie in grado di conferire mirabili poteri quale la facoltà, attribuita anche al medium scozzese Daniel Dunglas Home, di alterare le proprie dimensioni. D’altronde, accade spesso che Figure demoniache indù acquisiscano a seguito di pratiche ascetiche poteri attraverso i quali cercano poi di contrapporsi agli Dei. Ritiene che si possa davvero ravvisare nello Yoga un aspetto pragmatico e funzionale, puramente magico?
In realtà le scuole di Yoga tantrico lasciano a volte la meta della liberazione dal ciclo delle rinascite sullo sfondo, preferendo concentrarsi sull’acquisizione di poteri sovranormali. Tradizionalmente tra i poteri è contemplata la capacità di rendersi piccoli o grandi a volontà. Ma spesso s’incontra l’avvertenza che i poteri non andrebbero considerati di per sé una meta, che significherebbe interrompere il cammino di liberazione. Vi sono perfino testi che si fanno beffe degli yogin dotati di poteri, asserendo (magari con un po’ di esagerazione) che, in fin dei conti, tutti sono capaci di dotarsi di simili capacità, grazie a un mantra, cioè una formula magica, o a un preparato alchemico; l’ideale da raggiungere mediante la pratica dev’essere piuttosto quello del liberato in vita.
Fin dall’antica Mesopotamia, le mitologie umane sono costellate di figure che ambiscono a pervenire all’immortalità, soprattutto attraverso onerose pratiche eremitiche e ascetiche. Il Taoismo cinese, ad esempio, venera le figure degli 8 Immortali (Ba Xian), che hanno avuto accesso, su di un piano tanto concreto quanto etereo, alla vita perpetua ed altri immani poteri attraverso pratiche spirituali, sia fisiche che meditative. Se tra i propositi dello Yoga vi è quello di affrancarsi dalle infingarde illusioni materiali per raggiungere la liberazione, potrebbe esso aver contenuto, inizialmente, l’antico anelito ad eludere l’inesorabilità delle leggi naturali e del Tempo e scongiurare la Morte?
Lo yogin, certamente, ambisce a conseguire l’immortalità, ma bisogna intendersi su ciò che significa immortalità in questo contesto. Secondo la maggior parte delle scuole di Yoga, il soggetto è di fatto già da sempre immortale poiché consiste di una pura essenza detta Puruṣa o Ātman. Questa essenza non viene mai meno ed è di là da spazio e tempo. Immortalità significherà piuttosto presa di coscienza della propria natura intrinsecamente immortale. Mortalità invece è la confusione che il soggetto non liberato fa tra la sua reale natura e i fenomeni, quali il corpo, le cose, il mondo, la natura. Tra i fenomeni, diversi dunque dal soggetto, il pensiero indiano annovera anche pensieri, volizioni, sentimenti. Tutto ciò che può essere visto o percepito, tutto ciò che compare nell’orizzonte cosciente, non è il soggetto reale, giacché il soggetto è esattamente colui che vede, che percepisce, è insomma l’orizzonte stesso.

La giusta via
Lo scrittore di Fantascienza Robert Sheckley, nel suo brillante romanzo Immortality, Inc., 1959, immagina un balzano e fantasmagorico futuro in cui si può ottenere la sopravvivenza dell’”anima”, intesa come energia promanante dal corpo per poi corroborarsi fino a divenirne indipendente, attraverso espedienti tecnologici a pagamento anziché, come in precedenza, tramite complessi esercizi di matrice spirituale soprattutto orientali. Tra le varie cose, il romanzo è una sferzante allegoria satirica della reificazione e mercificazione delle pratiche spirituali, laddove il privilegio rimane di chi detiene le risorse materiali in un granitico sistema di “caste” economicamente determinate. Ritiene che questo scenario illustri bene alcuni aspetti di quello attuale?
La mercificazione delle pratiche spirituali non è per nulla un problema solo attuale. Già Luciano di Samosata nel II secolo d.C. si burlava dei creduloni, cioè delle masse ignoranti impressionate dai finti miracoli e dall’ostentato aspetto ieratico di sedicenti maestri. Nel far ciò, metteva in guardia contro questi presunti asceti e predicatori, in realtà truffatori in cerca di facile fama e ricchezze. Luciano ci presenta, tra l’altro, il caso di Peregrino Proteo, così chiamato per la facilità con cui all’occorrenza cambiava fede, il quale cercò di emulare i leggendari saggi indiani, i gimnosofisti. Anche i Jātaka, ossia la raccolta delle storie delle vite precedenti del Buddha Gotama, la cui origine precede forse l’era volgare, fanno riferimento a falsi asceti, in segreto preda di desideri assai mondani. Nel racconto del Canone buddhista poi, un cugino del Buddha, ossia Devadatta, causa uno scisma nella comunità spinto solo dalla sua invidia e sete di potere. Una figura abbastanza tipica della letteratura sanscrita è quella del sedicente maestro tantrico, che si rivela un avido vecchio sporcaccione. La mercificazione delle pratiche spirituali è, insomma, sempre esistita; forse l’unica specificità contemporanea è una sorta di industrializzazione e brandification, per cui anche le presunte pratiche spirituali divengono marchi registrati.

A mo’ di conclusione, cosa si sente di consigliare a chi vuole praticare oggi lo Yoga in Occidente?
Per prima cosa consiglio di rivolgersi a un insegnante con diploma di idoneità all’insegnamento rilasciato dalla FIY [Federazione Italiana Yoga N.d.R.]. Inoltre bisogna tenere presente che lo Yoga delle posture è solo una delle possibilità, anche se certamente la più diffusa. Le forme di Yoga associate al buddhismo antico, tardo o tantrico non sono da meno. Infine, può anche essere vero che se si pratica lo Yoga solo per migliorare la salute psicofisica, si è caduti in un equivoco, nel “materialismo spirituale” (espressione che compare tra l’altro nel titolo di un libro di Trung Pa), giacché scopo precipuo dello Yoga dev’essere la liberazione. D’altro canto, se la pratica non incrementa manifestamente il benessere sin da subito, o quasi, sia pure solo come effetto collaterale, ha molto probabilmente qualcosa di sbagliato e va abbandonata. Il Buddha ha insegnato che la pratica contemplativa, lo Yoga, deve generare gioia (pīti) e felicità (sukha). E ha anche insegnato che l’autopunizione (attakilamatha) come presunta pratica spirituale è tanto nociva quanto la totale assenza di qualsiasi interesse verso ciò che va oltre il mondo delle convenzioni.
Un commento su “Giornata internazionale dello Yoga: colloquio con il Professor Bruno Lo Turco”