Vincitore nel 2021 del Premio Logos Cultura in occasione del Premio Letterario Internazionale Switzerland Literary Prize con il volume Atto di Dolore, Tommaso Nelli, ha raccontato i propri punti di vista e le proprie domande a Q-Cultura, su quello che è senza dubbio il Caso di giornalismo di inchiesta che ha maggiormente scosso i corridoi del Vaticano. Su Emanuela Orlandi ha scritto per Spazio70, Articolo21, Cronaca&Dossier, T-Mag, L’infiltrato. Oggi pone l’attenzione su un aspetto da molti dimenticato: chi era Emanuela Orlandi e cosa è realmente successo quel terribile 22 giugno del 1983.

Una chiave per arrivare alla soluzione del Caso Orlandi. Nuove domande pronte per la Terza Inchiesta
Dott. Nelli, innanzitutto la ringrazio per avere accettato il nostro invito. Prima di addentrarci nel lavoro da lei portato avanti e nell’affrontare il suo libro Atto di Dolore, nel quale sonda nel dettaglio il Caso Orlandi, vorrei tornare per un istante a quanto accaduto da gennaio di quest’anno ad oggi. Finalmente il Vaticano decide di aprire un’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, e sulla scia di ciò, alla Camera si vota all’unanimità una Commissione di inchiesta anche per quel che concerne lo Stato italiano. Così sembra che il mistero di Emanuela, e con lei probabilmente anche quello di Mirella Gregori, possano essere ad una svolta definitiva. Poi però accade un qualcosa di inaspettato. Spunta fuori un audio, o meglio viene dato da parte di Pietro Orlandi alla grande comunicazione, un audio, addirittura risalente al 2009, secondo il quale è rintracciabile uno strano giro, diciamo così, che vedrebbe Papa Wojtyla ed altri esponenti del Vaticano, uscire la sera con delle giovani ragazze. Il putiferio messo in piedi dal presente audio fa sì che l’intento unanime della Camera circa l’istituzione della Commissione, si areni al Senato, sembrerebbe, anche qui il condizionale è d’obbligo, proprio per la paura di tirare in ballo una figura così amata dal mondo intero, com’è Papa Giovanni Paolo II. Ma c’era davvero necessità di tirar fuori questo nastro proprio ora che sembrava che tutto già fosse in moto per la riapertura del Caso?
Innanzitutto, credo che questa domanda dovrebbe farla a chi ha deciso di tirar fuori il nastro in questi mesi, rendendolo di dominio pubblico. Soltanto lui potrebbe fornire le motivazioni di questa scelta che, con il successivo rilancio mediante gli organi di informazione, ha assunto proporzioni inimmaginabili. E qui ci si deve porre subito una prima domanda: perché dare tanto respiro a un reperto che al suo interno lancia fango e illazioni nei confronti della figura di Giovanni Paolo II, senza però avere dei riscontri a supporto? Dal mio punto di vista, proprio la loro assenza squalifica il valore di questo audio.
Poi c’è da fare una seconda considerazione: il nome di Emanuela Orlandi non viene mai pronunciato. Se una persona ascolta ciò che ci è stato fatto sentire, se ne rende subito conto. Possiamo ricondurre quanto detto al caso Orlandi, perché così ci è stato presentato. Però se una persona lo ignorasse, all’ascolto non troverebbe nulla che possa ricondurre alla vicenda di Emanuela. Ricordiamoci inoltre che abbiamo giusto un frammento di quell’audio, non sappiamo quello che è stato detto prima, né quello che viene detto dopo, addirittura ci sono delle parti bippate, e tutte le frasi estrapolate da un discorso cambiano inevitabilmente di significato. Quindi sarebbe fondamentale ascoltarlo tutto, per comprendere come mai ad un certo punto si sia sentita l’esigenza di chiamare in causa Papa Wojtyla.
Se poi volessimo legare le dichiarazioni dell’audio con la scomparsa di Emanuela, non troveremmo alcuna rilevanza. Perché il 22 giugno 1983, quando scomparve Emanuela, Giovanni Paolo II era in Polonia e con lui anche il Cardinale Agostino Casaroli, altra personalità chiamata in causa da quella registrazione. Per cui la ricostruzione fatta da Marcello Neroni, l’uomo che parla nell’audio, non sta in piedi. Perché qualora mai il Vaticano avesse chiesto l’intervento di un soggetto esterno, tipo un personaggio come De Pedis, per risolvere una situazione scabrosa, si sarebbe di fatto consegnato alla criminalità romana, regalandole un’informazione estremamente compromettente con la quale avrebbe esercitato un ricatto al Papa o al Vaticano stesso.
Se volessimo poi anche supporre che questa situazione scabrosa sia realmente accaduta come affermato nell’audio, Karol Wojtyla sarebbe diventato soggetto di ricatto anche da parte dei Paesi dell’Est, che avevano i loro informatori in Italia. La Stasi aveva due agenti infiltrati in Vaticano, quindi quale migliore occasione per neutralizzare un papa dell’Est che stava portando avanti in tutti i modi la sua battaglia contro il comunismo sovietico, che avrebbe poi portato all’abbattimento del muro di Berlino?
In conclusione, posso dire che a questo audio è stata data un’importanza eccessiva e da un punto di vista strettamente giornalistico, posso aggiungere che le notizie quando vi siano, devono essere date subito, e non dopo più di dieci anni, a patto però che siano suffragate da elementi inconfutabili. Altrimenti non possiamo parlare di notizie.

Torno indietro a quello che invece è il suo percorso nell’ambito del Caso Orlandi e vorrei fare con lei un Focus specifico sul chi fosse Emanuela Orlandi, visto lei è uno dei pochissimi giornalisti che se ne è occupato, e nel suo libro ricostruisce con dovizia di particolarità, appunto, il carattere di Emanuela.
Emanuela Orlandi era una quindicenne che proveniva da una famiglia semplice, che viveva in Vaticano. La mamma era casalinga, lavorava soltanto il padre come impiegato presso la Prefettura della Casa Pontificia. Lei era una ragazza che mostrava diversi lati della propria personalità a seconda degli ambienti che frequentava. Gli ambienti in questione, compresa la famiglia, erano quattro. In casa, Emanuela era una ragazza solare, affettuosa, legata al fratello e alle sorelle, in particolare a Cristina, la più piccola, anche perché molto vicine di età.
Nei suoi tre universi sociali esterni alla famiglia, abbiamo un’Emanuela attenta e vivace a scuola, dove amava raccontare barzellette, ma che nel secondo anno, che si concluse purtroppo con la sua scomparsa, mostrò un peggioramento del rendimento scolastico. Fu rimandata in due materie a settembre e prese otto in condotta. Vero che a quell’età il carattere è in via di formazione, e quindi gli sbalzi umorali sono all’ordine del giorno, ma al contempo non possiamo escludere che vi potessero essere anche delle ragioni differenti in quel calo, soprattutto se inseriamo quest’informazione nel contesto di quello che le è accaduto. Sarebbe necessario interrogarsi sul “perché” di questa variazione, alla quale poi andrebbero aggiunte le riflessioni sulle eccessive ore di assenza dalla scuola. Da cosa furono causate, è una domanda cui nessuno fino a oggi ha saputo dare una risposta.
Con il “gruppo del Vaticano” e dell’Azione Cattolica abbiamo una Emanuela socievole, che amava stare in compagnia, ma molto riservata. Non era una che dava subito confidenza o che dava confidenza a tutte e a tutti. Una sua cara amica, con la quale riuscii a parlare poco prima del lockdown, mi raccontò che piaceva molto ai ragazzi e che aveva un fascino non certo da ragazza di quindici anni.
In ultima analisi, abbiamo la Emanuela della scuola di musica. Dove mostrava un carattere ancora più riservato. Consideriamo che nel proprio diario, dove conservava tutti i numeri di telefono dei suoi amici, pochissimi erano quelli legati a quell’ambiente. Nonostante amasse la musica, cantava molto bene, non era una ragazza che si metteva in mostra. Anche qui comunque abbiamo un’informazione che meriterebbe un maggior approfondimento. Se da una parte era indiscutibile la sua passione per la musica, il maestro di flauto mi disse che nell’ultimo periodo questa passione era scemata, come fosse stata soppiantata da altri pensieri.
Arresto per un momento il calendario a quel 22 giugno dell’83. Nelle dichiarazioni delle amiche di Emanuela, riguardanti quell’ultimo giorno prima della scomparsa, vi sono diverse divergenze e soprattutto poca chiarezza su alcuni movimenti di Emanuela. Vorrei domandarle, dal suo punto di vista, quali sono le domande che non si sono posti gli inquirenti in 22 anni di indagini, mi riferisco sia alla prima che alla seconda inchiesta.
Partirei con le domande che mi sarei posto io e che mi pongo tutt’oggi, e in tal senso non posso non cominciare da chi sia la studentessa della scuola di musica che per ultima vide Emanuela Orlandi alla fermata dell’autobus la sera della scomparsa. Questa donna, allora ragazza, non è mai stata identificata dagli inquirenti, almeno stando a quanto dedotto dalle inchieste. Questa è una delle figure chiave della vicenda e una grave lacuna delle indagini.
Una seconda domanda che mi pongo è: come mai Emanuela, all’uscita della scuola, invece che andare verso destra, in direzione della Corte di Cassazione, per raggiungere gli amici, tra i quali c’era anche la sorella Cristina, girò a sinistra verso Corso del Rinascimento per raggiungere la famosa fermata dell’autobus? Possiamo presumere che lo abbia fatto per incontrare il finto agente Avon che l’aveva fermata precedentemente alle lezioni di musica, per offrirle il lavoro di volantinare a una sfilata di moda in cambio di 375.000 lire?
Però di quest’uomo su Corso Rinascimento non abbiamo tracce. Nessuno lo vide a quella fermata dell’autobus dove si persero le tracce di Emanuela. E non c’era soltanto lei o la ragazza mai identificata, da me ribattezzata “rosa blu”, ma anche altri allievi della scuola di musica e altre persone in attesa dell’autobus. Eppure, nessuno di loro ha visto quell’uomo, basti pensare che non è mai uscita una testimonianza in tal senso. Rimane il fatto che Emanuela, a quella fermata dell’autobus, stazionò a lungo, almeno fino alle 19:20 secondo quanto messo a verbale. Perché così tanto tempo quando sapeva di essere attesa dagli amici e dalla sorella al “Palazzaccio”?
Ecco, per arrivare alla verità bisognerebbe dare una risposta a queste domande e il primo passo per riuscirci è identificare l’ultima persona che era con lei.
Riguardo invece alle divergenti dichiarazioni di alcune studentesse della scuola di musica, che in un primo momento dissero di averla vista alla fermata dell’autobus mentre in un secondo momento, ascoltate individualmente, diedero versioni differenti, beh… andrebbero reinterrogate e con molta attenzione. Definire gli accadimenti di quella sera su Corso Rinascimento, permetterebbe di essere al 70% del percorso di verità.

Ma secondo lei, perché gli inquirenti non andarono subito a cercare chi fosse l’ultima persona ad aver visto Emanuela quella sera?
Guardi, questa è una bella domanda! Da qualche funzionario di polizia che si era occupato del caso all’epoca, mi fu detto che da un lato furono travolti dalla pista del ricatto internazionale, successivamente evidenziato come depistaggio, e dall’altro che il loro lavoro non beneficiò delle tecnologie di indagine odierne. Ora, è giusto dire che la scomparsa di Emanuela mise in moto un meccanismo che ebbe un’eco smisurata, ma anche che sono stati compiuti degli errori di valutazione. Anche perché nel momento in cui invece di rimanere sul fatto concreto, si è cominciano a seguire tutte quelle piste così eclatanti, come appunto la pista internazionale, non si è fatto un servizio alla verità su Emanuela e alla sua memoria.
Quello che mi ha sorpreso è che questi errori di valutazione si siano poi cristallizzati nel tempo. Sono trascorsi quarant’anni anni e due inchieste della magistratura senza riuscire a colmare lacune come questa dell’ultima persona insieme a lei prima della scomparsa. Potrei comprendere le difficoltà nella prima inchiesta, meno nella seconda, quando oramai era trascorso molto tempo dai fatti e non si poteva più esser travolti dagli eventi, sebbene il canovaccio della forma sia stato molto simile. Perché se siamo passati dal ricatto politico-internazionale al presunto ricatto economico, si è deciso comunque di percorrere una pista in ogni caso eclatante e suggestiva. Quando invece, proprio perché si aveva a disposizione il lavoro dei predecessori, vi erano tutte le condizioni per agire diversamente e rispondere alle domande rimaste inevase.

Emanuela e quel numero di telefono sconosciuto che diverrà l’utenza di TelePace. Qualcosa non torna
Vorrei tornare un momento sulle amiche di Emanuela e porle una doppia domanda. Che idea si è fatto del loro comportamento, visto che proprio seguendo la sua inchiesta, in questi anni si è trovato più di una volta a cercare di prendere contatto con loro, senza grandi esiti, per altro. E, visto che ora il Vaticano ha aperto un’inchiesta e noi potremmo esser sul punto buono di ritrovarci una Commissione parlamentare in grado di tornare ad indagare sulla scomparsa di Emanuela, non si potrebbe, mi permetta di utilizzare un termine eccessivo, fare “pressione” affinché gli inquirenti si mettano in moto per cercare le risposte alle domande cui accennavamo precedentemente?
Parto dalla fine. Ma assolutamente sì! Si potrebbe andare dagli inquirenti a far presente che dovrebbero proprio partire dalle persone vicine a Emanuela per arrivare alla verità. Oltre all’individuazione dell’ultima persona con lei, bisognerebbe poi individuare l’intestatario di un numero di telefono sul diario di Emanuela, associato a un nome femminile, che risulta però essere estraneo a tutti gli ambienti da lei frequentati. Numero di telefono che alcuni anni dopo diventerà l’utenza di “Telepace”, emittente televisiva cattolica. Se si decidesse di ripartire proprio da questi elementi, credo che vi potrebbero essere dei risvolti molto interessanti.
Per la prima parte della sua domanda, debbo dirle che moltissime amiche e amici di Emanuela non hanno voluto incontrarmi o aprirsi più di tanto. Da una parte, è anche comprensibile perché all’epoca erano adolescenti e possono essere rimasti scossi dal fatto. Dall’altra, intanto questi non sono più adolescenti bensì adulti. E credo che dietro questi rifiuti possano esserci informazioni che aiutino ad arrivare alla verità. Ma questo è un lavoro che spetta agli inquirenti.
Prima di salutarla e ringraziarla, vorrei ricollegarmi proprio a quest’ultima sua precisazione: è un lavoro che spetta agli inquirenti. Lavorando in senso ampio a questa nostra retrospettiva sul Caso Orlandi, sono venuto a conoscenza, mi dica se sbaglio, del fatto che una volta aperta un’inchiesta, qualsiasi cittadino potrebbe presentarsi dagli inquirenti e porre delle proprie, chiamiamole perplessità, e gli stessi inquirenti sarebbero tenuti per legge ad ascoltarlo. Qui arrivo a lei: visto che proprio lei è stato uno dei pochissimi giornalisti ad aver affrontato il Caso da una prospettiva differente, non potrebbe esser lei a cercare di “indirizzare” il nuovo filone di inchiesta verso questi aspetti, da 40 anni, abbandonati?
Allora, qualsiasi cittadino che ritiene di essere in possesso di elementi utili a un’indagine, può presentarsi dagli inquirenti e chiedere di essere ascoltato. Nel mio caso, io sono un giornalista e non mi sembrerebbe corretto mettermi a dare consigli sul metodo di investigazione a chi l’investigatore lo fa per professione. Anche perché ho rispetto dei ruoli. Quello che posso dire, è che sono a completa disposizione degli inquirenti. Qualora lo ritenessero opportuno, sono pronto a mettere a loro disposizione tutto il mio lavoro di questi anni per fare chiarezza sul caso di Emanuela Orlandi.
Un commento su “Un passpartout nel Caso Orlandi: l’ultima persona che l’ha vista alla fermata dell’autobus”