Come nasce la necessità di istituire una giornata dedicata all’Africa
Per la Giornata Mondiale dell’Africa, celebrazione della nascita dell’Organizzazione dell’Unità Africana, abbiamo con noi Vincenzo Giardina, classe 1974, giornalista, responsabile della redazione Esteri dell’Agenzia di Stampa Dire e collaboratore di quotidiani, settimanali e mensili come Internazionale, L’Espresso o Il Venerdì di Repubblica. Come corrispondente per diverse agenzie ed emittenti ha viaggiato e lavorato in giro per il Mondo e si occupa in particolare di Africa e Paesi svantaggiati, diritti umani, migrazioni, empowerment economico, cooperazione internazionale, sviluppo e sostenibilità.

Grazie di aver accettato il nostro invito. Ci può dispensare, innanzitutto, una prospettiva storica sulla Giornata dell’Africa, illustrandoci la sua importanza e il suo significato, passato ed attuale, per il Continente?
Grazie a voi. A tanti anni dalla nascita dell’Organizzazione dell’Unità Africana, istituita il 25 maggio 1963 ad Addis Abeba, poi divenuta nel 2002 Unione Africana, si celebra appunto la decisione di creare questo organismo di rappresentanza continentale con propositi anticolonialisti, e i temi di unità, integrazione, cooperazione, compattezza, autodeterminazione restano, accanto a quello dello sviluppo, imprescindibili, cruciali, centrali ancora oggi. Da allora ci sono stati, così come ci sono tutt’ora, molti Panafricanismi, elaborati e propugnati dai più diversi interpreti, attivisti ed intellettuali. Gli attuali dirigenti politici si richiamano oggi a questi personaggi fondamentali, preminenti, della storia e cultura africana del Secolo scorso, dovendone però adattare il pensiero ad un contesto differente, volubile, cangiante, sempre in evoluzione, per far fronte alle novità. Nel bisogno di stabilire e corroborare un’unità politica, per presentare al mondo un continente più compatto e forte sul piano internazionale, istanze identitarie e pragmatiche si compenetrano e si fondono per cercare di preservarsi da ingerenze straniere vecchie e nuove, gioco di presenze e contrapposizioni esterne tutt’altro che placate.
Ancora negli anni ’70 del Novecento, il 20 gennaio 1973, si è consumato l’assassinio del leader panafricanista Amílcar Cabral, il quale lottava contro il dominio coloniale portoghese, facendo rete con altri indipendentisti ed anticolonialisti dell’Angola e del Mozambico, per la libertà della Guinea-Bissau e delle isole di Capo Verde. Lo scopo di noi giornalisti è capire, intercettare e valutare ponderatamente tutte le situazioni e forze in gioco nel continente.

Il leader indipendentista Amílcar Cabral, assassinato il 20 gennaio 1973
Al netto di tutti i crucci politici, economici e culturali ed i conflitti, l’attuale e vasta realtà africana, fra tradizione e novità, è quanto mai effervescente e ferace, creativa: anche se molte di esse pervengono in sordina, sono tante le proposte, le sfide e le innovazioni di matrice africana, dall’ambito artistico a quello scientifico, tecnologico, imprenditoriale (disponendo d’altronde il continente, altresì, di un numero di imprenditrici fra i più alti al mondo). Ce ne può fornire un quadro generale e degli esempi?
L’Africa è un mosaico, un calderone, un arabesco caleidoscopico, una fucina quasi convulsa, nel bene e nel male: c’è fervore, concitazione, risorse, opportunità, e al contempo una realtà, una serie di situazioni complesse, elusive, ostiche da fronteggiare e gestire, molte delle quali sono contraddistinte da una caratteristica fondamentale del continente tutto, ossia la peculiarità, l’unicità. Le sfide precipue dell’Africa sono specifiche e necessitano di formule, soluzioni, strategie specifiche, e questa è una delle ragioni fondamentali per cui le idee, i progetti, i prodotti della creatività africana sono sovente molto originali, come le prospettive e le influenze culturali, tra tradizione e innovazione, che essa può elargire. L’ingegno africano è multiforme quanto le esigenze a cui cerca di ovviare o le sfide che si propone. Nel 2020, apprendendo dell’infuriare sull’Africa orientale, a seguito di alterazioni ambientali nella Penisola arabica, loro habitat di riferimento, di sciami di locuste, nella mia mente sono subito sopravvenuti scenari biblici di desolante ed esiziale distruzione; ho però avuto modo di intervistare l’ingegnere Abubakr Salih-Babiker, dell’istituto Climate Prediction and Applications Centre (Icpac) di Nairobi, nel Kenya, che mi ha descritto l’attività di un supercomputer in grado di fornire un quadro dettagliato sullo spostamento degli insetti incrociando dati acquisiti e mappe satellitari sulla base dei parametri utili. L’Africa si sta ritagliando la propria parte anche nell’attuale corsa allo Spazio: l’ingegnere ugandese Bonny Omara, ad esempio, coadiuvato da colleghi connazionali e dello Zimbabwe, ha condotto e sta conducendo, attraverso progetti di cooperazione internazionale, studi atti a realizzare e porre in orbita nano-satelliti dalle numerosissime applicazioni.
Dei progressi tecnologici africani si occupa il camerunense Momo Bertrand, dirigente della Banca Mondiale, nel suo libro dal titolo emblematico From Africa to Mars (2022), ove preconizza nuovi scenari.

l’ingegnere ugandese Bonny Omara
Complici anche molti media, le prime cose che percepiamo dell’Africa sono infatti problemi, conflitti, violenze, atrocità, indi solo in secondo luogo, più blandamente, meriti ed eccellenze: oggi serpeggia poi una subdola variante del solito, inveterato, squallido razzismo che, avvalendosi dello spauracchio del “politicamente corretto”, caldeggia martellanti accuse di “buonismo” e vittimismo che edulcorerebbero e mistificherebbero le mancanze africane, e manipola così la complessità fino a far passare per sagacia ed avvedutezza posizioni semplicistiche adombranti ancora una volta l’idea di corruzione e incompetenza intrinseche e generalizzate. Che ne pensa?
Nessuna problematica presenta cause univoche, e naturalmente ogni popolo ha, universalmente, le proprie responsabilità da ponderare riguardo quanto lo affligge; ma la principale, più corriva, inquietante e dannosa tra le iper-semplificazioni è quella che sembra dimenticarsi, come accade troppo spesso, che l’Africa, non un paese o una nazione ma un continente, non consiste in un blocco unico ed amorfo bensì in un fremente ribollire di identità e realtà distinte, quasi una farragine, ove può risultare sì facile perdersi, cadere vittima dell’inconsapevolezza e non saper reagire a miseria, oppressione, ingiustizia o fanatismo.
Le cose vanno pertanto vagliate caso per caso e fatto per fatto, nella loro immane e articolata, ostica complessità. Il conflitto che affligge il Mozambico, ad esempio, è in buona parte determinato dalla presenza di preziosi giacimenti di gas, risorsa ambita da multinazionali italiane, francesi e americane che operano nell’area: in questo contesto specificamente mozambicano, con circostanziate particolarità locali, le responsabilità preponderanti sono di una classe politica forse inadeguata con elementi magari oppressivi, avidi e corrotti, delle ostilità ed irrequietezze intestine o delle incalzanti presenze straniere? E’ difficilissimo dirlo, e sta a noi giornalisti cercare di stabilire le connessioni con onestà e oculatezza.
La sfida precipua per l’economia africana è, d’altronde, quella di trovare formule che permettano la più efficace cooperazione tra le molte ed eterogenee realtà locali con le loro svariate e particolari esigenze e problemi mai uguali. Nell’elaborare e proporre le sue formule, strategie e soluzioni specifiche alle peculiari necessità e condizioni africane, allo scopo di corroborarne possibilità e prospettive, il valente economista Carlos Lopes, originario della Guinea-Bissau, punta l’accento sull’interazione unica, e complessissima nella sua unicità, tra le molte realtà in campo da conciliare per perseguire obiettivi comuni, lo scopo prefissatosi dall’Unione Africana.
Eppure nelle tradizioni antiche l’Africa subsahariana era una terra ineffabile, misteriosa, quell’Etiopia della mitologia greca su cui non tramontava mai il sole al pari della leggendaria Iperborea; e così i suoi abitanti, astuti e formidabili, e non solo per l’Occidente, basti pensare alle superbe figure “etiopi” de Le Mille e una Notte. Poi il sopraggiungere di interessi schiavisti e coloniali ha deferito gli “Etiopi” e il loro “colore” alla più grottesca inferiorità “senza Storia”, come voleva Hegel. Ed ecco denigrate le realtà tribali, rimosso il Regno di Kush con le sue regine e faraoni, scambiate le rovine della città di Grande Zimbabwe per quelle delle Miniere di Re Salomone, facendo imperversare uno sguardo macchinosamente obnubilato su di un territorio vergine, opulento, ancora misterioso, ma deprivato delle sue genti.
Io sono un giornalista e mi occupo di elementi molto concreti, dedicandomi all’attualità sociale, economica e politica. Ma riconosco il greve peso delle impalpabili elaborazioni culturali. Nel disincanto odierno si reitera questa idea negletta del resto del mondo come un luogo remoto ed evanescente, che non ci tocca, ma da cui non ci si aspetta più neppure la meraviglia come in passato, quanto piuttosto la conferma di quel privilegio che pretendiamo di meritare. Oggi però parlare di Esteri, termine giornalistico corrente nelle redazioni, appare un fuorviante e vetusto cascame novecentesco, perché non esiste un racconto che inizia e finisce in Italia, per dire, o altrove, in recinti dal granitico confine, e l’appartenenza a un popolo o a una cultura non è data dal colore della pelle bensì dal proprio contributo: perché gli africani possano essere del tutto riscoperti e ritrovati, quello di cui ci dobbiamo rendere conto è che il Mondo è qui ed ora, che “gli altri” li abbiamo accanto, non solo in quanto i confini si sono definitivamente ridotti ed assottigliati, ma poiché molti di questi “altri” partecipano col proprio valore, la propria forza e il proprio talento al nostro tessuto sociale, basta alzare lo sguardo per carpire finalmente l’evidenza.

Le rovine di Grand Zimbabwe, città medioevale Shona.
L’Africa tra passato e presente
Le antiche discriminazioni pesano sulle problematiche cogenti. Quali sono le nuove forme di colonialismo che cercano di entrare dalla finestra sfruttando le attuali situazioni di tensione?
Riprendendo alcuni punti della risposta alla prima domanda, in Africa si dipanano e impazzano molte contrapposizioni e tensioni economiche e politiche del mondo contemporaneo, giocando un ruolo accanto ai retaggi e agli interessi mai sopiti delle ex potenze coloniali come Francia e Gran Bretagna. I nuovi attori di questo scenario sono nazioni come Cina, India o Turchia. In epoca sovietica, decenni fa, la Russia ha esercitato una notevole influenza su una consistente porzione di continente, influenza forse mai dissipatasi in quanto, con l’acuirsi del conflitto in Ucraina a seguito dell’offensiva militare russa cominciata il 24 febbraio 2022, sembra sia stata rilevata dai media europei una pervasiva presenza nel continente del famigerato gruppo di mercenari russi denominato Wagner, ad esempio in Mali e Burkina Faso. Interfacciandosi con la Radio France Internationale o altri media francesi e francofoni, appare evidente come essi la adombrino quale forza determinante, decisiva per conflitti in corso quale quello, dalle conseguenze particolarmente gravi, in Sudan.
A quelli appena considerati si giustappongono altri interessi in conflitto, e sta a chi cerca di fare buon giornalismo tentare di analizzare i fatti, le crisi, i contrasti indagando il ruolo di tutte le forze in campo.
Quando questa intervista uscirà, si sarà svolto il 49° vertice del G7 ad Hiroshima, con Paesi come Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania e appunto l’ospite Giappone, il cui primo ministro Kishida è reduce di visite in Kenya, Ghana, Mozambico ed Egitto; in agosto, però, al G7 si contrapporrà, in Sud Africa, il vertice delle potenze emergenti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), le cui attività coinvolgono altri Paesi africani, incontro che vedrà forse la partecipazione del presidente russo Vladimir Putin…
Tutti questi elementi fanno del continente un campo di battaglia ghermito, irretito da così tante orbite e sfere di influenza da esacerbarne facilmente quelle tensioni fra le varie realtà locali, e rendere umanamente arduo per le comunità preservare lucidità e integrità.
Molti pensatori africani paventano lo smarrimento e la fragilità che possono nascere da questo Caos, e denunciano le insidie di una ricerca febbrile di identità e un anelito di emancipazione e affermazione che possono, per irruenza, deragliare: lo scrittore premio nobel nigeriano Wole Soyinka ha ad esempio criticato il concetto di “Negritudine” perorato da Senghor e Césaire ravvisandovi a suo dire un riverbero coloniale, frutto dell’avventata urgenza di ricomporre in un’angusta scatola i contorni sfilacciati di identità lacerate e in conflitto. “La tigre non proclama la sua tigritudine. Essa assale la sua preda e la divora.”, ha affermato Soyinka, quasi a voler ricordare, come scriveva Nietzsche, che più è profondo il pozzo e più tardi si sente il tonfo del sasso. Il filosofo eritreo Tsenay Serequeberhan esorta gli africani a non soggiacere all’ansia di aderire a una definizione bensì ad ardire sperimentarsi nell’affrontare e confrontarsi criticamente col proprio orizzonte vissuto.
Non mi azzardo ad esprimermi a riguardo. La necessità e la sfida degli intellettuali e degli attivisti africani, e delle molteplici identità comunitarie e culturali tese e protese tra tradizione e futuro, consiste nel ritrovare la propria misconosciuta e bistrattata dimensione e il proprio posto, appunto, nella Storia.
La mia opinione, riprendendo le affermazioni di prima, è che quel che noi occidentali, in particolare, dovremmo finalmente imparare a fare è rispettare ed ascoltare queste identità palpitanti, alla strenua ricerca e in cammino, aprirci alla loro visione, anche per criticarla, ma accogliendola: per quanto ci si prenda il proprio spazio, è difficile essere attori e protagonisti senza un debito palcoscenico, e le importanti voci che si esprimono oggi si scontrano spesso con la nostra un po’ tracotante, anche inavvertita, autoreferenzialità.
Occorre ascoltare non solo chi è nato in Europa, ad esempio, o chi ha potuto allontanarsi ed affrancarsi ed integrarsi altrove, ma altresì chi arreca una visione diversa, chi proviene direttamente dalle travagliate situazioni in Sudan, Mozambico o Etiopia, e può arricchire il nostro sguardo apportando nuove prospettive.
Se abbiamo imparato (spero in tanti) a non ridurre a vacua assimilazione quella continuità che fa di noi esseri umani una cosa sola e a riconoscere e celebrare le autentiche differenze senza inventare infingarde e artefatte gerarchie, difficilmente sfuggiamo alla nostra tentazione di vedere l’Altro, se non in funzione nostra, in relazione a noi, come un riflesso o un’appendice. Abbiamo il dovere di sviluppare la propensione all’ascolto puro e semplice, che non ci ponga al centro di tutto come riferimento e prototipo universale.
Mi vengono in mente Hannah Arendt ed Emmanuel Levinas e il loro indugiare sull’importanza capitale dell’Altro. Una domanda da appassionato: la Fantascienza, declinata nella splendida corrente dell’Afrofuturismo. La mirabile scrittrice di origini nigeriane Nnedi Okorafor è, ad esempio, autrice di opere come Binti (2015) e Lagoon (2014), in cui le identità africane si riscoprono profondamente attraverso il confronto dirompente, destabilizzante e illuminante con l’alterità extraterrestre. Lei ritiene che tra le forme di narrativa e linguaggio artistico la Fantascienza, con la sua prerogativa di espandere la realtà e le sue possibilità attraverso una fantasia tanto iperbolica quanto sobria e rigorosa, possa offrire nuove e fresche prospettive sull’Africa, restituendo inoltre agli Africani, finalmente, l’antico prestigio di leggendari “Etiopi”?
La Fantascienza può scardinare e ribaltare visioni e rovesciare, farci scrollare di dosso annosi e dannosi stereotipi e narrative con le sue realtà immaginate, ma il fulcro resta il fornire, come dicevamo, fresche prospettive da cui attingere nuove frontiere e orizzonti. La Fantascienza è deflagrante poiché estrema nel proporre altri mondi, luoghi e tempi, ma l’importante è accogliere mondi, tempi e luoghi altrui qui ed ora, per ricordarci come questi “altri” ci siano accanto fornendo la loro partecipazione e contributo. Altri tempi e luoghi sono anche quelli della Battaglia di Adua, combattuta nel 1896, in Etiopia, nella regione del Tigray, fra l’esercito italiano e quello etiope capitanato dal Negus Menelik II, culminata con una rovinosa sconfitta per l’Italia. L’interessante prospettiva su tali eventi di esperti non nostrani, come lo storico ugandese Milton Allimadi, è fondamentale da approcciare, anche per rigettarla, ma consapevoli del nostro interlocutore e predisposti al confronto autentico.
A proposito, tuttavia, di Etiopi leggendari, Fantascienza e Storia si fondono nella Grafic Novel Zufan (2021), realizzata dal fumettista etiope Beserat Debebe e pubblicata dalla casa editrice Etan Comics (fondata dallo stesso autore), ove la battaglia di Adua si fa allegoria profondamente significativa, colma di messaggi preziosi, divenendo gli Etiopi di allora una alleanza panafricana che riesce a proteggere la Terra fronteggiando un’invasione aliena, grazie ad alteri personaggi alla cui testa, a capo della Federazione, vi è Zufan, figura disegnata a immagine del Negus, manifestazione di unità, pace, orgoglio, intrepidezza e intraprendenza che Debebe anela per l’Etiopia e l’Africa di oggi. Ricordo a chi legge che a giugno ascolteremo a Roma la testimonianza di un altro valente artista del fumetto, il vignettista sudanese Khalid Albaih, altra voce fondamentale con cui confrontarsi.