La crisi del Sudan attraverso gli occhi di Music for Peace

Stefano Rebora, presidente della Ong Music for Peace, e sua moglie Valentina Gallo raccontano la loro esperienza in Sudan

Partiti da Genova per una delle missioni umanitarie che portano avanti da oltre trent’anni, i volontari di Music for Peace sono stati costretti a rientrare in Italia dopo dieci giorni di pesanti scontri in Sudan.

Una situazione complessa, ma non nuova per il presidente dell’Ong Stefano Rebora, che insieme al project manager Pietro Biondi, la social media manager Chiara Gardella, l’executive manager Valentina Gallo (coniuge di Rebora) e loro figlio Athos (8 anni), ha assaggiato gli orrori di un paese diviso, dove il 90% della popolazione vive sotto la soglia di povertà.

Genova, sede di Music for Peace; in conferenza stampa (da sinistra a destra) Pietro Biondi, Stefano Rebora, Valentina Gallo e Chiara Gardella

Come vi sentite dopo il rientro in Italia?

Valentina: Un frastuono interiore perché come abbiamo già ribadito, hai una lotta interna tra l’essere qua —perché lo sapevi che prima o poi ti avrebbero tirato fuori— e l’aver lasciato là tutto il resto. È una gioia infinita rivedere gli amici, i parenti ed è un dolore infinito lasciare l’altra parte in queste condizioni.

Stefano: Sì, per me fondamentalmente è un ritorno, non una fuga. Nel senso che già da subito, proprio da quando abbiamo lasciato la mattina stessa per evacuare il paese, noi non siamo scappati. Tutti insieme abbiamo sistemato l’ufficio, messo in ordine i documenti, pulito la cucina, le nostre Guest House e infine abbiamo chiuso la porta a chiave. Questo cosa significa? Vuol dire che noi siamo andati via come se si concludesse una missione, se si concludesse il periodo di presenza degli Internazionali, ma con l’intenzione di ritornare al più presto. Poi è ovvio che adesso quello che ti lascia è un frastuono, uno stato di allerta. Senti un tonfo sordo e ti giri di scatto, senti un rumore e pensi a un aereo… ti restano degli automatismi, degli strascichi.

Rientro in Italia per i connazionali evacuati dal Sudan

Music for Peace promette al Sudan che questo non sarà un addio

Per quanto mi riguarda dal primo minuto che ho messo piede sul suolo nazionale, ho subito pensato a cosa fare laggiù e come proseguire col progetto. I contatti con lo staff locale sono continui in modo da non fermarci, andare avanti col progetto e aiutare queste persone. Lo ripeto, ci fosse stata la possibilità mi sarei fermato. Non lo abbiamo fatto, non per una questione di paura, ma solo perché non potevamo lavorare, e non potendo lavorare saremmo diventati solo un peso anche per lo sfaff locale.

Valentina Gallo e Music for Peace in visita al popolo sudanese

Se abbiamo una speranza di continuare ad aiutare queste persone in questo momento, dobbiamo farlo sottotraccia senza farci notare ed è ovvio che una faccia bianca in mezzo a tante facce nere è molto più facile notarla. Quindi abbiamo deciso di coordinare lo staff locale andando avanti con loro. Questa è un’intenzione che abbiamo già comunicato a Roma sia agli uffici Aics che alla Farnesina, noi non ci fermiamo a prescindere da quella che possa essere la loro idea.

Al di là di questo temporaneo rallentamento, come cambia il vostro progetto in Sudan, sempre se qualcosa è cambiato?

S: Cambia nelle esigenze. Strutturalmente non cambia nulla, continueremo l’assistenza alle mille famiglie che avevamo prima, continueremo l’assistenza sanitaria agli ospedali attraverso la fornitura di medicinali e di attrezzature mediche. Cambiano le esigenze perché se prima già mille erano poche, oggi sono nulla perché le esigenze della gente si raddoppiano. Se prima con un pacco tu mangiavi un mese, perché unitamente a quel pacco con un lavoretto saltuario guadagnavi qualcosa per andare avanti, oggi per la stessa famiglia servono almeno due pacchi. Quindi il nostro appello è alla popolazione tutta, aiutiamoci e aiutateci ad aiutare, raccogliamo l’impossibile e partecipate numerosi a quelle che sono le nostre raccolte perché abbiamo bisogno di questo, perché loro hanno bisogno di tutto.

Scontri in Sudan ripresi dai volontari di Music for Peace

Dato il costante afflusso di notizie relative a un numero crescente di conflitti in diverse aree del mondo, come possiamo tenere accesi i riflettori sul Sudan? C’è il rischio che guerre a noi più vicine [Ucraina n.d.r.] possano distogliere l’attenzione da una situazione come questa?

S: È ovvio che noi in questo momento stiamo parlando di Sudan perché siamo reduci dal Sudan, però secondo il mio punto di vista è un po’ come quando fondai l’associazione… non bisogna tenere accesi i riflettori sul Sudan, ma su tutte le guerre.

Noi abbiamo la guerra di serie A perché è in Europa mentre le guerre di serie B o addirittura serie C sono quelle nei paesi dimenticati. Fermo restando che spesso queste guerre sono figlie di quella guerra, con la differenza che mentre qui giochi con un minimo di regole, là liberi tutti. Per me non esiste un impegno sociale settoriale, per me l’impegno deve essere a 360 gradi, non deve esserci una guerra tra associazioni.

Scontri in Sudan ripresi dai volontari di Music for Peace

Il cambiamento passa attraverso tutto, attraverso l’ambiente, attraverso il sostegno alle famiglie in difficoltà, attraverso il sostegno alla ricerca per migliorare l’efficacia delle cure contro le malattie, passa attraverso tutta una serie di cose. Io lo dividerei tra il buono e il cattivo, il bene e il male. Il segno più antico del mondo è il tao; nel campo bianco c’è un puntino nero e nel campo nero un puntino bianco. Vuol dire che nel bene c’è sempre un po’ di male e nel male c’è sempre un po’ di bene, però noi dobbiamo tutti quanti impegnarci al fine che il puntino nero che rappresenta il male all’interno del bene sia realmente microscopico e il puntino bianco all’interno del nero sia enorme quasi ad annientare il nero. Ecco questo deve essere il nostro impegno.

Scontri in Sudan ripresi dai volontari di Music for Peace

Faccio degli esempi che possono essere banali ma sono importanti, perché un altro punto fondamentale è quello di riuscire a comunicare con le persone. Noi siamo una Ong che nasce dalla gente per la gente e così dobbiamo rimanere.

Ragionando a mente più fredda, considerando soprattutto la recente storia politica del Sudan, quali sono le tue sensazioni circa la possibile durata del conflitto?

S: Il problema del conflitto sono due generali con due idee differenti. Ma cosa rappresentano questi due generali? Rappresentano due forze in campo, rappresentano due realtà tribali differenti, rappresentano soprattutto interessi differenti. Da una parte abbiamo Dagalo che è il generale delle RSF dei famigerati Janjaweed, molto vicino alla Wagner —che tutti ormai abbiamo imparato a conoscere— impegnata nell’estrazione dell’oro in Sudan, oro che viene veicolato tramite giri immensi come flusso di denaro in Russia. Dall’altra abbiamo Al-Burhan, generale sanguinario tanto quanto Dagalo —perché stiamo parlando di un golpe militare avvenuto nel 2021 e che oggi viene intaccato da un altro golpe militare—, che rappresenta invece le forze governative con un occhio molto vicino al mondo occidentale e in particolare agli americani, che si trova davanti a uno stop al flusso di denaro al fine di sviluppare il paese, perché non è presente un processo di democratizzazione e un governo eletto dal popolo.

Scontri in Sudan ripresi dai volontari di Music for Peace

E poi abbiamo una terza parte in campo, che è quella società civile che fino a tre settimane fa spingeva al fine di trovare una soluzione per avere delle elezioni e per iniziare un processo di democratizzazione.

Al-Burhan dice “Ok, abbiamo trovato una quadra” al punto da decidere che il 10 maggio potevano essere effettuate delle elezioni e che poteva nascere un governo di unità nazionale unitamente alle forze democratiche della società civile. Dall’altra parte Dagalo dice “No, per me un processo di democratizzazione non è possibile. Ci vogliono almeno dieci anni per arrivare a questo, quindi per dieci anni dobbiamo essere noi a governare il Sudan”.

Scontri in Sudan ripresi dai volontari di Music for Peace

Questo vuol dire da una parte tenersi le miniere e continuare i propri business, e dall’altra non ricevere i fondi se non si prosegue con questo processo.

Questo ovviamente ha fatto scaturire una diatriba continua fino ad arrivare a un ultimatum dato da Al-Burhan a Dagalo, al fine di far rientrare le truppe nei ranghi e sotto il controllo delle forze governative. Dagalo rifiuta di sottomettersi, iniziano così le prove di forza e nell’arco di quarantotto ore scoppia il conflitto. Un conflitto che è pilotato con forze in campo non rappresentate ma presenti. Il problema è che così abbiamo chi lotta per il potere e chi per il denaro.

Bisogna anche pensare che dopo dieci giorni di conflitto iniziano le carenze di generi di prima necessità, di acqua, energia elettrica… le banche sono chiuse e anche chi aveva disponibilità minime ora non può più far nulla. Col popolo sempre più affamato la situazione rischia di sfociare in una guerra civile, non perché sono un popolo come potremmo pensare di ladroni, ma semplicemente perché il popolo ha bisogno di sopravvivere.

Scontri in Sudan ripresi dai volontari di Music for Peace

Senza scordare la forza dormiente di cui abbiamo parlato in precedenza, che è la forza della Società Democratica, un movimento organizzato, strutturato, che potrebbe essere armato e che al momento resta in attesa della conclusione di questa diatriba, per presentare il conto a chi rimarrà. È ovvio che quello potrebbe essere il momento più propizio per eventualmente forzare la mano, perché sicuramente dopo un conflitto del genere chi ne uscirà, anche se ne uscirà da vincitore, sarà sicuramente indebolito.

Dall’alto della tua trentennale esperienza alla guida di missioni in paesi colpiti da gravi condizioni d’emergenza, cosa è significato trovarsi nel mezzo di una guerra insieme alla propria famiglia?

S: Fermo restando che il mio modo di ragionare è sempre stato molto paterno nei confronti dell’associazione, per me Music for Peace è infatti una grande famiglia. Ho sempre agito come se fossi un po’ il papà putativo, d’altro canto sono il fondatore.

Genova, sede di Music for Peace; Stefano Rebora insieme ad alcuni volontari

Detto questo è però ovvio che avere nello specifico mio figlio e mia moglie al fianco cambia qualcosa. Al di là di essere mia moglie [Valentina n.d.r.] è comunque una mia collega e che collega, un pezzo fondamentale dell’associazione prima e dell’Ong ora.

Il fatto di avere anche nostro figlio lì presente, non è mai stata una responsabilità in più, ma uno stimolo che ti porta a riflettere prima di agire. Se prima ci pensavi mille ora pensi mille e uno. Diciamo che questa riflessione in più derivava dal fatto di avere un minore tra noi, e non dal fatto che fosse nostro figlio, poteva essere infatti il figlio di un qualsiasi altro membro.

Data la giovane età di vostro figlio (Athos, 8 anni n.d.r.), è stato necessario spiegare quello che gli stava accadendo intorno?

V: Athos ha 8 anni, ma è partito con un suo bagaglio personale perché lui è nato a Music for Peace. È a conoscenza di cosa accade nel mondo e non in quel 20% di terra all’interno del mondo tutelata da quelli che sono i diritti umani. Sa perfettamente che ci sono tanti altri posti in cui esiste una guerra in cui esistono i diritti violati e mi pare che ne ha dato prova.

S: Sì assolutamente. Come si suol dire “ogni scarrafone è bell’a mamma soja”.  È ovvio che uno che ti sente parlare dice “Beh, cosa potresti dire in una situazione simile?”.

Io però sono sempre molto onesto nei giudizi, specie nei confronti di chi mi è vicino, dove divento persino più severo. Devo ammettere che Athos si è comportato molto molto bene, in modo maturo per quello che concede la sua età e soprattutto ha preso consapevolezza di tante cose. Ha potuto toccare con mano quello che aveva toccato solo per sentito dire e nella sfortuna penso che sia un’esperienza che lo segnerà in positivo e traccerà una linea importante della sua crescita. Ha affrontato la situazione con la maturità di un ragazzo adulto pure essendo un bambino, con i limiti di un bambino, con il gioco del bambino come è giusto che sia, con la visione del bambino, perché non dimentichiamo che anche quello è importante.

V: Sì, nonostante abbia comunque usato determinate terminologie che per l’età di 8 anni sono grandi. Ha usato la parola coscienza… “Ho preso coscienza di quello che sta succedendo” e questa è una frase che mi ha colpito, e allo stesso tempo una razionalità da adulto perché una sera ha detto “succede quello che succede, noi siamo tutti e tre insieme”.

Obiettivi nell’immediato per il Sudan?

S: È ovvio che in questo momento siamo passati, concedimi il termine, alla ribalta per quello che è successo, ma di fatto per me non cambia niente. Mangio con la mia bocca, cammino con le mie gambe, vedo coi miei occhi e ragiono con la mia testa, quindi non è cambiato nulla. Io sono tornato, fatalità tu hai avuto possibilità di vederlo, pronti via e sto continuando.

Genova, sede di Music for Peace; un container carico di generi di prima necessità in partenza per il Sudan

Per me non si è fermato mai niente, l’Ong continua il suo percorso, ha tante cose da fare, i vari settori dove opera, dai senza fissa dimora, al sostegno alle famiglie sul territorio, l’ambulatorio popolare, i progetti all’estero che in questo momento sono rappresentati dal Sudan e vengono portati avanti, un progetto educativo che si sta concludendo, e un festival imminente dove spero questa ribalta ci dia la possibilità di fare un festival ulteriormente vissuto dalle persone e soprattutto finalizzato a una raccolta strepitosa.

Non dimentichiamo che noi siamo particolari, il nostro festival è unico perché l’ingresso non è regolamentato dal denaro bensì dai generi di prima necessità. Spero che l’unica cosa che cambi sia in positivo e che dia un input maggiore alla raccolta. Per il resto i nostri piani rimangono gli stessi, con l’obiettivo di tornare in Sudan immediatamente dopo il festival con un convoglio strepitoso, e se ci fosse la possibilità, perché no… anche prima.

Foto concesse da Music for Peace e dalla social media manager Chiara Gardella.

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